Elenco blog personale

lunedì 20 agosto 2018

An Unlikely Diary - Appunti Musicali

Tra ponti crollati ed applausi ai funerali con tanto di selfie annesso. Tra polemiche a non finire ti rendi conto che - forse - lo scopo è solo quello di farti dire 'basta, avete tutti ragione, decidete voi per me ' con sottofondo di 'è sempre stato così, sarà così per sempre'.
Io continuo a far mia l'idea di un intrattenimento che - anche quando si pone come mera evasione - non abbia funzione di oblio delle coscienze quanto quella di 'spostamento percettivo' - ovvero di un mutamento di prospettiva utile a fornire nuovi spunti di osservazione della realtà. Si perché - sia sottinteso - alla realtà è sempre necessario rapportarsi.

                                                     BJORK - HYPERBALLAD (1995)

La voce per eccellenza del passaggio di millennio - qui in uno dei suoi pezzi in assoluto più noti. L'uscita di quell'album costituì una mia piccola personale epifania e spostava (finalmente) i confini dell'ascoltabile. C'era già tanta elettronica di altissimo livello ma per quello stronzone che ero (e che per tanti versi rimango, intendiamoci) il viaggio nella terra incognita cominciava allora. Senza contare che questo pezzo mi emoziona ogni volta senza bisogno di un perché .

                                            AFGHAN WHIGS - SUMMER'S KISS (1996)

L'album 'Black Love' , per quanto splendido, non è forse l'apice della loro produzione (per quello è meglio guardare ai due immediatamente precedenti) e questo pezzo era passato - alle mie orecchie - come decisamente secondario anzi - a ben vedere - decisamente troppo classicheggiante. Oggi lo ritengo un capolavoro. Sembra un pezzo di Spingsteen ma intriso di sensibilità black come raramente il boss ha saputo fare. E poi ti restituisce in un sol colpo i migliori anni '70 possibili: quelli immaginari.
Did you feel the breeze?
My love
Summer's kiss is over, baby
Over
Do you know the words?
Sing along with me
And put on your rose fur coat, baby
It's 1973
 
                           NICK CAVE AND THE BAD SEEDS - INTO MY ARMS (1997)
 
Nel 1997 pare che Nick Cave abbia già dato il meglio di se. I critici si dividono ormai in chi accoglie ogni suo disco come un capolavoro e in chi lo da per bollito a prescindere. Nick spiazza tutti con questo pugno di canzoni semplici ed essenziali che vanno dritte dove devono andare (straight to you). Questo pezzo poi ci spiega perchè la gente sente talora il bisogno di rivolgersi a dio - fa tremare. 

                                       YO LA TENGO - TEARS IN YOUR EYES (2000) 
 
Gli Yo La Tengo - da Hoboken, New Jersey - sono portatori di un approccio all' indie rock (cioè: a quella cosa multiforme che prendeva quel nome) piuttosto originale e sempre di grande qualità. A differenza di tanti altri hanno forse dato il meglio dopo già diversi anni di carriera (anche se erano molto belli anche i primi album). Questo pezzo proviene da uno dei loro dischi migliori ed è una ballata che sembra triste ma (ribadisco) ci sono lacrime molto più allegre di tanti sorrisi. 
 
                                             DINOSAUR JR. - THE WAGON (1991)
 
Fu il mio primo approccio coi grandissimi Dinosaur Jr. e va detto che - dopo un pezzo del genere - è difficile non amarli incondizionatamente. Ai tempi erano già una creatura del solo J.Masics  che Lou Barlow già se ne era andato: rispetto agli album precedenti dunque questo 'Green Mind' può risultare un tantino monocorde visto che Masics firma tutti i pezzi ma - onestamente - importa poco visto che come incipit dell'album infila questa roba di fronte alla quale è impossibile resistere. 
 

lunedì 13 agosto 2018

Pages of Bettie

Un buon ferragosto da una delle muse di questo blog - la divina Bettie Page.





Le Storie (Siamo noi)/3








n.11 – Il lungo inverno – Giovanni Di Gregorio/Francesco Ripoli
Un racconto questo che non brilla forse di originalità ma che riesce in effetti a prescinderne grazie ad alcuni elementi che sono – a parer mio – rispetto all’originalità ancora più importanti, ossia: una sceneggiatura solida ma in grado di tener conto di atmosfere e sfumature e disegni perfettamente in linea con gli obiettivi della narrazione. L’ambientazione scandinava (lappone, per la precisione) fa subito pensare al giallo nordico che tanto piace di questi tempi (anche con qualche ragione) ma poi vira verso quello che è senza dubbio il principale referente, cioè il cinema di Ingmar Bergman (i vostri amici dicono che è noioso? Non credeteci e verificate di persona, potreste avere qualche sorpresa).
Lars Svensson è un botanico che si reca in una clinica lappone per curare una dermatite all’apparenza banale ma assai persistente e fastidiosa, qui – in un posto decisamente isolato e perennemente innevato – farà conoscenza con gli altri ospiti della clinica e – inevitabilmente – anche con se stesso; fino a dipanare quel grande mistero inespresso (ma non poi difficile da capire) che aleggia sulla struttura tutta.
Di Gregorio (attivo perlopiù su Dylan Dog e Dampyr ma anche autore di una graphic novel di taglio giornalistico su Brancaccio) se la cava davvero bene e capisce subito che – nel caso in questione – a contare non sono tanto i colpi di scena o gli eventi a sorpresa quanto piuttosto le atmosfere. Ed in effetti è proprio nel contrasto tra l’oppressione della clinica (riflesso degli angusti labirinti della mente umana) e l’algido paesaggio circostante (in grado di richiamare sensazioni di purezza e pace, come sempre le ampie distese innevate riescono a fare) a dare la giusta pulsione narrativa al tutto, una sorta di desiderio di redenzione (per cose non dette) che finisce per essere l’inconscio motore trainante della vicenda.
Francesco Ripoli ha un talento enorme ed è forse un peccato che non si vedano in giro abbastanza lavori suoi, forse è un mio limite ma io ho trovato solo ‘Senza sangue’ (Baricco adattato da Tito Faraci e dallo stesso Ripoli) e ‘Ilaria Alpi’ (edito da Becco Giallo e scritto da Marco Rizzo, ricostruisce le vicende relative all’omicidio della giornalista del tg3). Colpisce soprattutto nell’utilizzo dei neri, abbondanti ed atti quasi a ‘sporcare’ le tavole, donando così un risalto ancora maggiore a quelle in cui (poche in verità) deve essere il bianco a prevalere; per qualche motivo mi ha ricordato Schulteiss (chi lo ricorda?) ma è solo una suggestione personale, me ne rendo conto.
[7,5]




n.12 – La pazienza del destino – Paola Barbato/Giovanni Freghieri

Barry Melville è un divo di Hollywood che si trova in un brutto guaio, c’è infatti un personaggio misterioso che minaccia la sua vita. Per fermarlo si rivolge a Douglas Monroe, un investigatore privato – visibilmente ricalcato sulle sembianze di Humphrey Bogart – che la sa parecchio lunga sui misteri della capitale del cinema nonché sui vizi e le abitudini dei suoi abitanti.
È facile intuire che ‘La pazienza del destino’ va a parare nel territorio del noir classico, in un’ipotetica linea che congiunge Chandler e Hammett (ma in particolare le loro trasposizioni cinematografiche) fino ai film di Billy Wilder più affini all’argomento (e penso ovviamente a ‘Viale del tramonto’);  ma in realtà – se di influenze si deve parlare – sarebbe meglio non andare troppo lontano nel tempo e limitarsi a quel filone che potremmo definire ‘iper citazionista’ e che fa dell’esibizione ostentata dei topoi  di un certo genere narrativo il suo carattere prevalente, quasi a definire una sorta di universo parallelo su cui poi andrà ad innestarsi una trama. A ben vedere questo tipo di ‘sospensione dell’incredulità ‘ è quasi ovvia per un genere come il fantasy (ad esclusione, almeno in parte, dei suoi padri fondatori) che ha appigli limitati con la realtà, ma questo può avvenire ed avviene anche con un genere come il noir che – pur avendo confini indefiniti – nella realtà trova ed ha trovato di certo il suo motore propulsivo. Il gioco può portare ad esiti ottimi o mediocri. Nel fumetto alcuni esempi tipici di questo tipo di racconto possono essere ‘Sin City’ o ‘100 Bullets’ ma anche (ad un livello più alto – secondo me) ‘Stray Bullets’ di Dave Lapham; oppure senza spostarci troppo da casa e (forse) saltando di palo in frasca, svariati ‘liberi’ di Lanciostory e Skorpio. In particolare mi è venuta in mente una serie (pubblicata sull’ Intrepido’) chiamata ‘Sorrow’, scritta da Graziano Cicogna e disegnata dallo stesso Giovanni Freghieri (e forse il richiamo nasce anche da qui), un fumetto piuttosto carino ma che sguazzava talmente nei luoghi comuni della malinconia noir da divenire quasi deprimente. Ecco ‘La pazienza del destino’ deprimente riesce a non esserlo ma il peso dei luoghi comuni usati a piene mani lo paga comunque: non sorprende e non appassiona più di tanto ma nemmeno dà fastidio, diciamo solo che dopo averlo letto lo si scorda facilmente. Lo stile di Freghieri è sempre quello che conosciamo da molti anni, personalmente lo apprezzo e comunque per storie di questo tipo risulta molto adatto.
[5/6]











n.13 – Il moschettiere di ferro – Giovanni Gualdoni/Giorgio Pontrelli

Nella Francia del 1642 – sotto il regno di Luigi XIII – i problemi sono all’ordine del giorno. Le guerre impazzano, i moschettieri sono ormai dispersi e il cardinale Richelieu è sempre più preso dal suo delirio d’onnipotenza che lo porta a tramare oscuri complotti per impadronirsi del potere sul regno (e non solo). A contrastare la situazione rimane ormai solo Luigi II di Borbone duca di Enghien. In modo inaspettato però entrerà in campo anche un personaggio abbastanza singolare: una sorta di automa che in un primo tempo sarà sostanzialmente un’arma nelle mani del diabolico cardinale ma che poi saprà ribellarsi diventando a tutti gli effetti un moschettiere. L’automa in questione però ha delle particolarità, non è solo un oggetto, ma è in grado di parlare, di provare sentimenti e, su queste basi, si intuisce ben presto che la sua natura non ha solamente origine nella scienza ma c’è qualcosa di più (non vi dico a quale mito ci si rifà anche se intuirlo non è difficilissimo).
Gualdoni riesce qui ad imbastire una trama che – seppur alla lontana – ha qualcosa che potremmo anche definire ‘steampunk ’ anche se, in realtà, si tratta più che altro di una sorta di crossover tra archetipi narrativi che di solito paiono destinati a non incrociarsi. L’idea è valida e discretamente originale (anche se questi ‘incontri improbabili’ sono sempre più all’ordine del giorno) ma sembra un po’ fine a se stessa – come se il tutto si risolvesse in un’inconsueta ispirazione ma poi la trama andasse a svilupparsi su binari un tantino canonici. La lettura è comunque un piacevole intrattenimento grazie anche all’ottima prova di Giorgio Pontrelli (disegnatore già visto all’opera su ‘John Doe’ e ‘Dylan Dog’) il cui tratto nervoso dona alle tavole un dinamismo che forse non è la scelta più consueta per una storia ambientata in quest’epoca.
[5,5]







n.14 – Cuore di lupo – Carlo Ambrosini

Carlo Ambrosini è oramai da annoverare tra i maestri del fumetto italiano e su questo non si discute. Il fatto che la gran parte della sua carriera si sia svolta nell’ambito dell’editoria ‘popolare’ (uso questo termine  - per quanto improprio – tanto per capirsi al volo) non fa altro che darci la conferma di come i tempi siano mutati definitivamente e gli steccati oramai saltati. Non ci sono più le riviste ‘d’autore’ a fare da tramite: oramai la consacrazione di un fumettista ad Autore (con la maiuscola) è affidata alla sensibilità ed all’attenzione del pubblico e magari anche alla capacità analitica degli addetti ai lavori – in particolare si sente la mancanza di una vera e propria critica sui fumetti (la colpa è della rete, almeno in parte – troppo caotica, dispersiva e settorializzata per far emergere un discorso in qualche modo unitario  unito alla visione del singolo interprete)[i].
Questa premessa solo per dire che la mia opinione sulla storia in questione può essere un tantino viziata dall’aspettativa che avevo. A pensarci bene poi è può essere giusto che autori anche affermati (anzi soprattutto loro) colgano l’occasione di una collana antologica per sfogare la propria creatività con qualche storia palesemente minore. ‘Cuore di lupo’ racconta la vicenda di Jeff Cardiff, giornalista che si trova a indagare su un crudele massacro perpetrato in un cantiere edile del New Jersey ai danni di sei operai. Viene anche appiccato un incendio per coprire qualsiasi traccia ma ci sono dei testimoni: due giovani nativi americani che – proprio per questo – diverranno bersaglio di una spietata caccia all’uomo.  L’indagine di Jeff lo porterà anche a rivangare aspetti del suo passato legati alla cultura degli indiani d’america, con riferimento in particolare alla amatissima nonna appena scomparsa e ad un lupo - amico ma anche ‘spirito guida’.
A pensarci bene l’unico problema di quest’albo è forse l’angusto limite nel quale si auto costringe: il materiale narrativo e le atmosfere avrebbero  meritato uno sviluppo di più ampio respiro; così invece i punti di forza del racconto (che stanno soprattutto nel background del protagonista) necessariamente rinunciano ad un loro pieno sviluppo per la necessità di portare a conclusione una trama poliziesca che necessariamente deve giungere ad un punto fermo. Superfluo dire che quello che manca è proprio quel magico equilibrio che invece si realizzava benissimo in ‘Napoleone’ e ‘Jan Dix’ -  ma in quei casi si trattava di serie regolari o miniserie comunque di ampio respiro, dove lo spazio per la definizione di personaggi ed atmosfere non andava assolutamente a scapito del procedere della trama.

[6,5]


[i] Il rischio è di parificare tutto – ma attenzione: il blog di un semplice appassionato che si diletta a scrivere delle cose che ama (come questo) non può né deve avere uguale valore rispetto agli scritti di chi a quell’argomento ha dedicato magari anni di studio e ricerca.





n.15 - I FIORI DEL MASSACRO – Roberto Recchioni/Andrea Accardi
La giovane Jun vede il padre suicidarsi per denunciare la corruzione e il malaffare presenti alla corte del daimyo mentre questi e i suoi funzionari lo schernivano. Tentata a sua volta dal suicidio incontra però – in un giorno di pioggia – un vecchio viandante cieco che si rivelerà essere ben di più di quello che appare: si tratta infatti di Ichi, personaggio a metà tra la figura leggendaria e l’amico di famiglia (interviene infatti sulla base di una richiesta inviatagli a suo tempo dal padre di Jun). In breve: la giovane viene condotta dall’anziano guru lungo la cosiddetta ‘Meifumado’ – la via dell’inferno del guerriero ed inizierà così un percorso sanguinario che la porterà ad ottenere vendetta.
Ci troviamo qui di fronte ad una sorta di seguito ideale de ‘La redenzione del samurai’ (Le Storie n.2) – dove Recchioni e Accardi proseguono nell’esplorazione del chanbara (sostanzialmente definibile come il genere cappa e spada nella cultura giapponese) – ambito questo che dovrebbe portare, prima o poi, ad una vera e propria miniserie dedicata a queste tematiche. Le influenze sono tante e spesso dichiarate: si va da dal classico ‘Onibaba – Le assassine’ fino a ‘Lady Snowblood’ (e per relazione anche Kill Bill, quindi) ma sarebbero tantissime le opere da citare e delle quali non ho conoscenza diretta – d’altronde il filone , che potremmo definire (alla grezza),  ‘Ninja femminile’ è comunque piuttosto vasto. Inoltre occorre anche dire che in quest’ambito non è tanto l’originalità del racconto a contare quanto l’abilità nel mettere in scena una storia che – pur con qualche variante – è grossomodo sempre quella e soprattutto il pathos che ci condurrà – inevitabilmente – al massacro finale. Bisogna ammettere che qui tutto funziona alla grande – dalla sceneggiatura che non si nega sequenze (e silenzi) di chiara origine manga fino agli ottimi disegni di un Andrea Accardi come sempre a suo agio con atmosfere nipponiche. Ottimo.

[8]