Kimo
Stamboel e Timo Tjahjanto pare non siano veramente fratelli pur firmandosi Mo
brothers. Cosa che pare essere un vezzo piuttosto diffuso in tempi recenti (e
soprattutto in ambito horror, chissà perché).
Ammetto subito che “Macabre” (titolo internazionale di “Rumah Dara”, chiamatelo un po’ come
volete) è il primo film indonesiano che mi capita di vedere, pur essendo – a
voler essere precisini – una coproduzione con Singapore (andrebbe citato anche
il pluripremiato “The raid” ma io non
l’ho ancora visto). Ricordiamo – par
incidens - che l’Indonesia è il più
popoloso paese Islamico del mondo, ma è anche un paese con una storia (ed una
geografia, invero) assai particolare. Per farvene un idea vi consiglio la
visione di quel capolavoro (estremo in più di un senso) che è “The Act of Killing”, ardito mix di
documentario ed esperimento sociologico che scoperchia una pagina assai
dolorosa e pure violenta della storia di quella nazione. In realtà sarebbe una
mezza minchiata volere vedere nell’iperviolenza messa in scena dai fratellini
Mo un qualche genere di portato del clima di tensione (è un eufemismo) e
generalizzata prevaricazione che la società del luogo ha indubbiamente subito
durante gli anni della dittatura militare e che – volenti o nolenti – un
qualche segno deve certo aver lasciato. Vero è che la rappresentazione della
figura materna come il primum movens dell’orrore
in atto un qualche sospetto di transfert di stampo storico potrebbe anche
destarlo; tuttavia si peccherebbe certo di sovra interpretazione, se teniamo in
considerazione che figure del genere (e situazioni del genere) sono parecchie
diffuse ormai a tutte le latitudini e le longitudini.
La
pellicola in questione - a livello di trama – non brilla certo di originalità.
Per capirci - ed in estrema sintesi – l’idea base è quella di un gruppo di
amici (tra i quali fratello e sorella e la moglie – in cinta – del primo) che
si trovano ad essere ospitati dalla famiglia di una malcapitata ragazza alla
quale hanno dato un passaggio. Si tratterebbe di un mero atto di cortesia
senonché la famigliola in questione – composta da madre, due figli più un
personaggio obeso che dovrebbe essere un amico di famiglia – ha intenzione di
sottoporre la compagnia ad un trattamento tutt’altro che amichevole,
essenzialmente a base di accette e lame ben affilate. In definitiva vai per
mangiare ma vieni mangiato.
Sarebbe
facile adesso – ma anche parzialmente veritiero – parlare adesso di un film che
si accoda sulla moda (ormai passata, ma assai diffusa fino a poco fa) del
cosiddetto torture porn sulla scia
che da “Saw” porta ad “Hostel” infilandoci in mezzo anche
derive europee come “Frontieres” o
il capolavoro “Martyrs” sino al
nostrano “Paura” dei benemeriti
Manetti bros. La verità, però, è che “Macabre” ha il buon gusto di mischiare
gli ingredienti in maniera abbastanza inedita. Nel film dei Mo brothers infatti
i riferimenti sono anche altri, in primis (ed è persino un’ovvietà a guardare
la trama) “Non aprite quella porta” film padre di ogni famiglia seriamente
disfunzionale e con tendenze antropofaghe che si rispetti. La differenza con il
capolavoro di Hooper sta soprattutto nel fatto che nel film asiatico la
famiglia è essenzialmente matriarcale (malgrado alcune presenze maschili –
tutte comunque sottomesse alla madre-padrona). E in verità abbiamo anche un
elemento occulto – non approfondito ma ben presente ed intuibile – per cui si
arguisce che i torturatori protagonisti di “Macabre” praticano in effetti una
sorta di sacrificio umano a scopo rituale con lo scopo (ottenuto, peraltro) di
mantenersi giovani malgrado l’oramai più che secolare età. Cosa curiosa questa,
che pare strizzare l’occhio – almeno per lo spettatore occidentale – al mito
della contessa Bathory e a tutta la pletora di film che al fascinoso
personaggio sono stati nel tempo dedicati, ma senza l’ovvio sottotesto sessuale
in essi implicito. Sempre sfruculiando nel calderone delle (vere o presumibili)
influenze troviamo – quasi come fosse una spezia – una sfumatura di J horror; dal punto di vista
squisitamente visivo è infatti possibile intravedere nel look delle diaboliche
virago che si vogliono pappare gli sventurati viaggiatori qualcosa delle varie
Sadako & co. , poco più – per intenderci – di una sorta di riferimento
visivo a quella “tradizione incrostata nel dolore” (definizione coniata
all’istante, perdonatemi) che sempre o quasi caratterizzò la stagione di “The Ring”, “The Grudge” ecc..
Al
netto di ogni influenza va però considerato che qui il tasso di gore è
veramente alto, la suspense è ben gestita e tiene fino in fondo, procurando
qualche sano brivido anche in noi spettatori che a queste cose dovremmo essere
più che avvezzi. Pare che il film sia stato bandito in Malesia: qualcosa dovrà
pur significare.
IL MAGNANI dice: 7,5
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