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mercoledì 8 maggio 2013

THIRST – Park Chan-wook – 2009

“Il suicidio è un martirio offerto a satana”. Forse è proprio in questa frase da ricercarsi la chiave più intima e conflittuale di quest’opera che – diciamolo subito e a scanso di equivoci – è una delle più originali riletture della figura del vampiro sin qui viste, da confrontarsi, ad esempio, con altri film fortemente eterodossi sulla figura dei succhiasangue (come potrebbero essere “Wampyr” di Romero o “The addiction” di Abel Ferrara, ma se ne potrebbero citare anche altri).
Il cattolicesimo di Chan-wook – inteso come educazione e non tanto come fede praticata – è qui presente molto più che nelle sue precedenti produzioni, dove pure si affacciava pur se non così ampiamente slatentizzato. Quello che colpisce sempre nel cinema di questo regista  - almeno a primo acchito -  è la densità, la quasi materiale difficoltà a muoversi all’interno di scene perfettamente progettate e stratificate, tanto dense di significante quanto veicolo di significati – spesso di natura inconscia, come intuizioni empiriche e prepotenti, talora – se lette superficialmente – in contraddizione tra loro.[1]
All’interno della filmografia del regista coreano “Thirst” (che esce nel 2009 – e in Italia si può vedere unicamente sottotitolato) arriva – cronologicamente parlando – dopo un’opera forse minore (almeno se la confrontiamo con la trilogia della vendetta – in specie coi primi due tasselli) ma di indubbio fascino e suggestione quale era “I’m a cyborg, but that’s ok” e in contemporanea (o quasi) con quel piccolo capolavoro che è “Night fishing” – mediometraggio di 40 minuti, girato interamente con un telefonino: tecnicamente prodigioso ma anche in grado di affascinare con una storia di fantasmi che desta una certa inquietudine, lasciando indietro di varie distanze i tanti epigoni di quel simil J-Horror che da tempo ormai immemorabile ha fracassato le palle a varie latitudini (tanto da far quasi dimenticare che razza di film coi contocoglioni fossero “The Ring” o “Pulse”, ma ci metterei anche “The Call” – forse in un eccesso di buonismo). Comprensibile invero che le aspettative riguardo a “Thirst” fossero alte e, come spesso accade in questi casi, anche le stroncature (o, per così dire, le “minimizzazioni”) non sono mancate. Lasciando da parte ogni pregiudizio tipico da addetti ai lavori – magari un tantino annoiati da interminabili visioni festivaliere – appare chiaro che il film in questione è dotato di una potenza rara, più che degno dunque di un paragone con la tanto celebrata (giustamente) trilogia



Il sacerdote cattolico  Sang-hyun (Kang-ho Song,anche in “Il buono ,il matto ,il cattivo”), animato dal desiderio di aiutare meglio e sempre di più le persone ammalate e sofferenti si offre volontario per un esperimento volto a trovare una cura per il temibile virus Emmanuel (“Dio è con noi” – a suggerire la sofferenza come dono divino e – forse – chi ad essa vuole opporsi come servo di satana – magari in un eccesso d’amore per la razza umana). L’esperimento si chiude con la morte di tutti i sottoposti alla cura; l’unico a salvarsi è proprio il nostro prete, grazie ad una trasfusione di sangue dalla provenienza incerta. La salvezza lo qualifica come miracolato e, una volta tornato nella sua città, troverà vari assembramenti di fedeli desiderosi di essere guariti  da lui, spesso anche accampati in improvvisate tendopoli nei pressi dell’ospedale dove Sang-hyun lavora. Un giorno una di queste persone: un’anziana signora particolarmente invadente, lo convince a visitare il figlio ammalato che in realtà è una vecchia conoscenza del prete, visto che si erano già conosciuti da bambini. Il ragazzo -  Kang-woo – effettivamente guarisce e veniamo anche a conoscenza di Tae-ju (Ok-bin Kim), sua moglie che però è anche praticamente sua sorella in quanto adottata dalla famiglia in tenera età.
Il problema è che – nel frattempo – padre Sang-hyun sviluppa una strana allergia alla luce ,ben presto abbinata alla necessità di bere sangue, necessità che viene però da lui  soddisfatta in maniera incruenta, per esempio succhiando dalle flebo infilate nelle vene dei malati – a mo’ di cannuccia – oppure approfittando della disponibilità di un anziano confratello, donatore (non del tutto) disinteressato.
La situazione si complica nel momento in cui il nostro reverendo inizia a frequentare con regolarità – una volta a settimana, per giocare a mah-Jong – la famiglia dei suoi vecchi conoscenti. In effetti la giovane e bella Tae-ju si sente un tantino sacrificata divisa com’è tra una suocera-madre che, in pratica, la utilizza da domestica e un marito-fratello dai comportamenti maldestri e puerili. Tra lei e il prete-vampiro scatta ben presto qualcosa. Qualcosa che li condurrà a condividere non solo momenti d’intimità ma anche la natura vampiresca e, in seguito, l’omicidio del malcapitato Kang-woo. 




La natura dei due amanti-vampiri si rivela però – nel trascorrere del tempo – piuttosto diversa visto che Tae-ju pare condividere ben poco della moralità tormentata e non violenta del suo mentore. Proprio il rapporto col resto dell’umanità (vista da Tae-ju sostanzialmente come bestiame) risulta il primo motore del conflitto che si instaura tra loro, un conflitto riconducibile alla dicotomia tra potere inteso come sopraffazione e potere inteso come responsabilità (spider man docet) e  - in definitiva – maledizione.
La conclusione è memorabile, rappresentazione di un omicidio-suicidio decisamente sui generis.
Come già detto “Thirst” è un’opera densa di significati, capace di continui ribaltamenti di prospettive e di tante scene memorabili. Da citare perlomeno l’omicidio multiplo degli amici del mah-Jong, violentissimo e al contempo asettico,svolto com’è nelle bianche e illuminatissime stanze  della casa riadattata dagli amanti, quasi a surrogare la luce del sole, negata dalla propria natura di creature della notte eppure in qualche modo ricercata. Oppure lo stupro inscenato da padre Sang-hyun, poco prima della fine, ai danni di una delle ragazze accampate in attesa di un suo miracolo, allucinata e volontaria distruzione della sua figura di “santo” – e in definitiva forte critica all’idea di martirio come portatore di una spiritualità superiore.

Kim Ok-bin

 
Song Kang-hoo


Quello che rimane dopo la visione (e rimane a distanza di giorni) è un senso di profondo disagio spirituale, dovuto forse alla consapevolezza – ben esplicitata – che le costrizioni morali del cattolicesimo altro non siano che un “fare di necessità virtù” e che “se solo potessimo…” . Una  vita vera ed intensa coincide con la più profonda natura (in)umana, col consacrarsi a satana, col distruggere il prossimo e – in ultima analisi – distruggere sé stessi. Tremano le gambe, il sangue pulsa più forte.
Superfluo dire che attendiamo con ansia “Stoker” primo cimento a produzione occidentale di Park Chan-wook, nella speranza che non venga colpito dal solito processo di normalizzazione che ha afflitto altri grandi  prima  di lui, una volta “emigrati” (si pensi a John Woo o a Hideo Nakata). Tuttavia le prime impressioni raccolte fanno decisamente ben sperare. 

                                                                                      TRAILER


IL MAGNANI dice : 9

[1] Contraddizione che potrebbe apparire, in chiave politica, proprio in quell’opus magnum che è la trilogia della vendetta. Dagli estremismi di sinistra di “Mr. Vendetta” a quelli destrorsi e “giustizialisti” di “Lady Vendetta” passando per la visione sociale radicale ed innovativa di “Old boy”.

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