Ce lo
dicono. Pensando di rassicurarci.
I Maya
non c’hanno indovinato.
Cioè:
dove sarebbe la buona notizia?
Mica
prevedevano la fine pura e semplice per tutta l’umanità – tra pianto e stridor
di denti - annegando assetati in un mare di merda e vomito. Lasciate stare
adesso tutte le altre profezie di contorno, che non erano altro che un
tentativo di dar forza a quella principale – che in verità – come vagonate di
santoni new age si affannavano a spiegarci - non significava la “fine del
mondo” quanto piuttosto la fine di un ciclo, di un’era o chiamatelo come
volete, che tanto ci dovremmo essere capiti comunque.
Insomma
la verità è che, nella profezia dei Maya, io, come molti altri suppongo, ci
avevo onestamente sperato. Lungi dall’atterrirmi, ne ricavavo invece un
benevolo refolo di speranza. Si perché c’è una bella differenza, se ne
converrà, tra il dire “avevo ragione, siamo tutti nella merda (compreso me)
grazie solamente ai nostri comportamenti, e oramai non ci rimane che affogare”
e dire “abbiamo sbagliato tutto ma possiamo ricominciare: abbiamo un’altra
possibilità”.
Per non
chiudere completamente le porte in faccia alla speranza farei notare – quanto
meno a me stesso – che le epoche storiche ben difficilmente si chiudono col
botto – sono generalmente processi piuttosto lenti che – anche quando generati
da uno o più eventi di grande portata (chessò: la scoperta dell’America; la
seconda guerra mondiale…) hanno bisogno di tempi lunghi per rivelarsi in tutta
la loro portata. Ciò per dire che nulla esclude che un’era si stia veramente
chiudendo per lasciar spazio ad un’altra. E lo sviluppo della cosiddetta
“crisi” potrebbe farsi rivelatore in tal senso – ma mettendo da parte le mie
doti profetiche devo mestamente ammettere che – per dirla col poeta – “lo
scopriremo solo vivendo”.
Eppure
la voglia di apocalisse in giro c’è ed è tanta. Arrivo a pensare che non si
tratti (non si tratti PIÙ) del solito bisogno di esorcizzare le paure tramite
la rappresentazione figurativa (col cinema perlopiù – ma anche coi fumetti,
videoclip, videogames ecc.) o l’evocazione narrativa o poetica: questo è andato
bene in passato – ogni qual volta, ad esempio, ed è successo spesso, la
“modernità” e il “progresso” mostravano il loro volto feroce e disumano. Le
arti (in senso ampio – senza distinzioni tra “alto” e “basso”) sono state
spesso quasi una sorta di “mea culpa” corale di una società intera: l’unico – o
quasi – momento di raccoglimento possibile (seppur – talvolta – altamente
spettacolare) in cui celebrare le
vittime dell’era dell’opulenza – il loro sacrificio (sottinteso “necessario” –
almeno quasi sempre - e qui andrebbero
introdotte delle distinzioni) è a tutti gli effetti un sacrificio umano mentre la
prosecuzione dello status quo è il premio di questo doloroso tributo.
La fine
del mondo (sempre sottinteso: il mondo così come lo conosciamo) appare sempre
più come un qualcosa di sperato e desiderato – l’unico e solo modo di lasciarsi
alle spalle i guasti della società globalizzata ed avere una possibilità –
piccola o grande che sia – di ricominciare su basi nuove. Basi che – dati i
momenti di inevitabile difficoltà pratica che ci troveremmo a vivere –
esalterebbero al limite estremo le doti dell’essere umano, sia quelle negative
che quelle positive. Col risultato di una società selvaggia in cui il “bene”
avrebbe comunque una chance di prevalere: cosa che nel tempo attuale, in un
contesto sociale esasperatamente “strutturato” e certamente più chiuso di come
ama autorappresentarsi appare – con ogni probabilità – impossibile.
"materiale umano" da World War Z |
Ora: il
fatto che io abbia tratto queste riflessioni da una serie di blockbusters
dell’attuale stagione cinematografica può anche far dubitare della mia sanità
mentale. Questi film hanno però vari aspetti in comune (oltre alla vicinanza
delle date d’uscita) e – pur non volendo attribuire chissà quale valore alle
coincidenze (che - d’accordo –
junghianamente non esistono – ma che volendo si spiegherebbero col mero calcolo
commerciale legato per l'appunto al pulsante millenarismo scaturito in
prossimità dello scadere della profezia Maya. Nient’altro che un argomento alla
moda, dunque) mi pare necessaria una riflessione che vada oltre lo specifico
filmico e punti – cazzeggiando un po’, va da sé – all’universo pulsionale che
le pellicole in questione si incaricano – all’interno di classiche storie
avventurose – di rappresentare.
Tra
queste la più sorprendente è forse “World war Z”, tratto dal libro di
Max Brooks ed adattato per lo schermo in modo da infilarci la figura –
tradizionale e Hollywoodiana – dell’eroe positivo (interpretato qui da Brad
Pitt). Il film di Marc Forster (non certo un autore in senso pieno, ma regista
duttile e di buone capacità) ha il pregio di chiarirci - in maniera plastica e
graficamente spettacolare – che una cosa è “la fine del mondo” altra è la “fine
dell’umanità”. Tutto il pianeta è preda di una terribile epidemia “zombificante”,
nessun è al sicuro, ogni sistema di difesa è debole e temporaneo, i nostri
simili si trasformano velocemente in orribili creature pronte a divorarci e ad
infettarci. La salvezza sta negli inganni che la natura stessa ama predisporre,
cioè in definitiva in un vaccino, che – pur riuscendo a fermare il contagio –
non ci esimerà dal combattere una guerra durissima contro masse immensi di
nostri simili ormai irrimediabilmente mutati. Ma c’è comunque una speranza. È
qualcosa. Speranza che – paradossalmente – ci viene da altre malattie – gravi,
mortali anche, ma delle quali abbiamo scoperto la cura. La debolezza dell’oggi
potrebbe diventare la forza del domani.
Superman |
“L’uomo
d’acciaio” non è altro che l’ennesimo tentativo di adattare per il
grande schermo le avventure di Superman. Si tratta questa volta di un reboot;
dopo l’avvilente “Superman returns”
di Bryan Singer di qualche anno fa classificabile come sequel rispetto alla
precedente quadrilogia iniziata da Richard Donner sul finire degli anni ’70
(film piuttosto tediosi – seppur col tempo ammantati dall’aurea del cult). Zack
Snyder - a mio modestissimo parere – firma qui il suo film più riuscito di
sempre – non che ci volesse poi molto – riportandosi perlomeno ai dignitosi
livelli dell’esordio col remake “running” degli zombies romeriani di “Dawn of the dead”. Qui il sentore
escatologico arriva direttamente dal pianeta Krypton (luogo natale del nostro
Kal-el, per i veri alieni che non lo sapessero) nella forma del generale Zod
(ottima idea quella di non aver scelto il solito Lex Luthor come villain di
turno) che ha la buona idea di “kryptonizzare”
(come dire terraformare – però in senso inverso) il nostro malcapitato pianeta
– avente l’unico torto di aver ospitato
– per quanto inconsapevolmente – l’unico altro superstite della defunta terra
natia ad eccezione dello stesso Zod e
della sua crew. Tutto l’aspetto catastrofista, per quanto spettacolare – passa
un tantino in secondo piano – rispetto alle caratterizzazioni dei personaggi:
in particolare il ramingo e stranito Clark Kent funziona alla grande e riesce a
generare un’immediata empatia, ma è tutto il film che – nella sua “colossale
medietà” riesce simpatico ed onesto (l’opinione è strettamente personale –
beninteso – stante anche la mole di recensioni negative accumulate), merito
senza dubbio anche della collaborazione di Christopher Nolan e David S.Goyer in
sede di soggetto, sceneggiatura e produzione. Tanto che verrebbe da azzardare
un sì alla domanda posta nella precedente pellicola se il mondo avesse ancora
bisogno di Superman.
Uno dei Kaiju di Pacific Rim |
“Pacific
rim” è, invece, la nuova ed attesa fatica di Guillermo Del Toro,
regista che, alla pari di Peter Jackson e Quentin Tarantino (per non fare che
due esempi) agisce da “collezionista”, ripercorrendo col suo cinema ossessioni
ed emozioni che, in tutto evidenza, hanno funestato la sua infanzia e la sua
adolescenza. Il discorso risulta chiaro specialmente a fronte di quest’ultimo
cimento: né più né meno che un kaiju- eiga condito da roboanti effetti speciali
e buon uso di CGI (peraltro in qualche modo enfatizzata dal modo “virtuale” in
cui i piloti devono condurre i loro robottoni). Gli amanti degli anime coi
robot giganti – a cui diedero corpo anni addietro vari autori giapponesi con l’immenso
Go Nagai come capofila – possono qui realizzare un loro sogno proibito,
rivivendo sul grande schermo una storia che si propone di essere al contempo
omaggio e sintesi di quel tipo di animazione. Combattimenti spettacolari –
dunque – tra mostri (chiamati kaiju,
guarda caso) e robot giganti (kaiju-
jaeger) insieme ad una forte enfasi sulle caratterizzazioni dei
protagonisti e sulle loro dinamiche interpersonali. Il risultato è una strana e
soddisfacente gioia per gli occhi ed il cuore. I mostri sono molto suggestivi
col loro look dinosauresco – ben giustificato dal fatto che non sono alieni ma
esseri provenienti da una dimensione parallela tramite un varco aperto nel
fondo dell’oceano; la stessa dimensione dalla quale vengono perlappunto i primi
abitanti della terra, desiderosi, evidentemente, di riconquistare quel mondo
che avevano dovuto lasciare per le mutate condizioni climatiche.
Il
pericolo dell’estinzione umana, dunque, arriva a volte dalla stessa natura, a
volte da pianeti lontani, altre volte ancora da qualcosa di rimosso che – in un
modo o nell’altro – è sempre stato vicino a noi.
Ma c’è
sempre un lieto fine? Beh, fino a un certo punto. Ben due film affrontano – con
esiti piuttosto diversi – una tematica assai ricorrente nella SF più classica.
Quella di un futuro in cui – generalmente a seguito di un qualche tipo di
guerra – la terra è ridotta ad un cumulo di macerie ed inquinamento e la razza
umana è oramai emigrata per colonizzare altri pianeti.
Tom Cruise guarda il panorama |
“Oblivion”
di Joseph Kosinsky – vede Tom Cruise impegnato in un ruolo simile a quello del
“Wall-e” nell’omonimo cartoon
disneyano – ha infatti il compito di monitorare l’estrazione delle ultime
risorse idriche della terra, destinate al sostentamento delle colonie. Lo
scenario è quello post bellico, in cui i terrestri hanno sì vinto la guerra contro
gli invasori alieni, ma al prezzo di una quasi totale devastazione del pianeta.
Questo senza contare che gruppi di nemici ancora scorrazzano per le desolate
lande mettendo a repentaglio l’attività di coloro che si occupano di prelevare
le ultime risorse necessarie alla sopravvivenza nello spazio. Inutile
sottolineare come le cose non sono quello che sembrano. Nonostante una trama
piuttosto prevedibile (e chi ha visto “Moon”
di Duncan Jones, proverà un preciso senso di deja vu) il film in questione si
guarda piuttosto volentieri – a patto di essere appassionati al genere – e, in
definitiva, l’unica cosa a dar veramente fastidio è solo il lieto fine, davvero
troppo “lieto”.
Rimangono
da spendere poche parole per “After Earth”, blockbuster (almeno
nelle intenzioni) firmato da M. Night Shyamalan (le cui quotazioni sono
decisamente in ribasso, soprattutto a causa del flop de “L’ultimo dominatore dell’aria”) ma di fatto opera di Will Smith,
che approfitta della situazione per tentare – per l’ennesima volta – il lancio
della carriera attoriale del figlio Jaden (dopo il mucciniano “La ricerca della felicità”, sempre in compagnia del padre e l’assolo del – ben
presto dimenticato – remake di “Karate
kid). Chiariamo subito che il pur volenteroso Smith junior trasuda una
certa antipatia sin dalle prime immagini, tanto che viene il sospetto che il
complesso di colpa/inferiorità nei confronti dell’ingombrante genitore vada
anche al di là del film (cinema veritè o pubblica psicoterapia – chissà?). La
razza umana si è definitivamente trasferita su altri pianeti, essendo la terra
oramai drasticamente fottuta, il viaggio interplanetario è una realtà
consolidata e le guerre aliene si sono concluse a nostro favore. Può capitare tuttavia
che un viaggetto tra padre e figlio vada a naufragare su un pianeta decisamente
poco raccomandabile. Indovinato quale? Il seguito poi si risolve in una serie
di peripezie che il giovine Smith dovrà affrontare al posto del padre,
immobilizzato e in pericolo di vita, per riuscire a chiamare i soccorsi. Alcune
buone scene d’azione e qualche trovata bizzarra (ad esempio la protettiva
aquila gigante, decisamente disneyana) non salvano il film dall’eccesso di
retorica e da un buonismo “senza costrutto”, mentre la plausibilità latita
assai. Ma quel che è peggio è che ci si domanda un po’ per tutto il film se sia
più stronzo il padre o il figlio, arrivando alla fine senza essere riusciti a
risolvere l’enigma.
Da
un’angolatura trasversale appare chiara la dimensione strettamente “ludica” che
in queste pellicole l’elemento apocalittico assume. In effetti la catastrofe
globale non è mai – direttamente almeno – cagionata dall’uomo. Siamo dunque di
fronte a un passo avanti nella rappresentazione escatologica umana – abbiamo
cioè superato sia la fase classica del catastrofismo che – con una certa
approssimazione certo – potremmo chiamare della “paura del progresso” sia
quella gravitante intorno all’undici settembre del “monito autocritico”. E
anche solo il fatto che la dimensione ludica della fine sia così ben presente
nell’intrattenimento attuale rende lecito pensare che il messaggio inconscio
che possiamo ricevere sia quello – semplicemente – di prepararci
all’inevitabile. Tentando si sopravvivere – magari per avere una seconda
possibilità. Cinema della resilienza – in effetti.
Pensate quel che volete di Oblivion ma Ola Kurylenko è un gran pezzo di topa |
Trailer di Pacific Rim
Bella scena di After Earth
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