Ci sono
autori ed opere la cui importanza supera ogni valutazione soggettiva e permea
di sé l’intera società, l’intero immaginario collettivo di un dato momento
storico. Capita a volte che esca il film/ il libro/ il disco giusto al momento
giusto. Ora, se ci troviamo nell’ambito di una forma di espressione definibile
come “socialmente accettata” e cioè generalmente ascrivibile alla “cultura”, popolare o meno che sia, il
problema non sussiste – o meglio non sussisterebbe: perché anche qui c’è il
rischio che l’opera in questione non appartenga al cosiddetto “mainstream” ma sia piuttosto rientrante
in un calderone che – semplificando –
potremmo definire “underground”.
Tanto per intendersi: il disco nuovo di un noto cantautore avrà una visibilità “sociale” ben
diversa da quello di una band dedita al drone metal o alla dubstep. Questo
prescindendo da qualsiasi discorso sulla qualità o sulla rilevanza. Il discorso
si complica ulteriormente se ci spostiamo nel territorio di arti che
“socialmente accettate” lo sono solo in parte o non lo sono affatto, come, ad
esempio, il fumetto. Certo, si dirà, negli ultimi anni le cose sono cambiate:
ormai di comics si occupano anche stampa e televisione, e spesso con un
interesse abbastanza genuino (e questo grazie anche ai tanti appassionati e
studiosi che si sono – per così dire – “infiltrati” nei media); tutto ciò è
abbastanza vero ma nulla mi toglie il sospetto che un neofita – magari
incuriosito da una recensione – non abbia chiaro che i termini graphic novel e
fumetto indicano precisamente la stessa cosa e che – tutt’al più - la graphic novel è un sottogenere all’interno
di una vasta categoria (insomma: esistono i romanzi rosa e l’Ulisse di Joyce –
sono molto diversi certo ma nessuno metterebbe in dubbio che il mezzo
espressivo – la parola scritta – sia lo stesso). Naturalmente questo mio dubbio
potrebbe essere del tutto ingiustificato: una sorta di paranoia di chi – da
sempre – è appassionato di “nuvole parlanti” e ancora non ci crede di essere
“ammesso in società”; se così fosse non potrei che rallegrarmene (fermo
restando che accanto a “Maus” o “Blankets” troveranno sempre posto nelle mie
letture supereroi, manga e tanto tanto altro ancora). Negli anni ’80 e ’90 però le sfumature di grigio erano poche, il
fumetto era ben più negletto di oggi – e le emozioni di un teenager di fronte
alle pagine faticosamente conquistate di “Corto Maltese” (la rivista della
Milano libri, che ospitò per prima “Dark Knight Returns”, “Elektra: assassin” e
“Ronin”)e “Fantastici Quattro” (della Star comics, che in appendice pubblicava
“Devil”) rischiavano di restare incomprese, quasi fossero l’innocua
passioncella di un mezzo demente - nella
pausa tra una sega e l’altra (oh yes… nel secolo scorso pare che gli
adolescenti abusassero di questa immorale praticaccia).
Di questo
mediatico “ingresso nell’età adulta”
del fumetto Frank Miller è (stato) certamente uno dei protagonisti: anzi –
direi – a cavallo tra anni ’80 e ’90 è stato IL protagonista (insieme ad Alan Moore).Il ruolo di Miller non si può
facilmente sminuire ne può la sua opera essere sottoposta ad affrettate
riletture a posteriori – magari sulla scorta di certe sue uscite a carattere
politico che oserei definire infelici (ma sono opinioni e quando si affronta
un’opera narrativa e figurativa l’opinione politica dell’autore conta solo fino
a un certo punto: bisogna avere l’onestà di ammettere che anche il peggio
fascista possa produrre capolavori). Il problema è che viene difficile pensare
che la mente dietro a tali e tante tavole ,che avevano concretamente dato
prospettive nuove al nostro percepirsi “fruitori di fumetti” abbia
completamente perso l’ispirazione e produca solo cosucce ammalate di
autoindulgenza e celebrazione del proprio mito. La politica importa e non
importa, dacché elementi di conservatorismo (in senso classicamente
repubblicano), omofobia ed interventismo già si potevano rinvenire in quelle
sue prime produzioni che – oggi ancora più di ieri – considero capolavori – in
senso assoluto – della nona arte.
A ben
vedere la carriera di Miller può essere divisa in due o forse tre tronconi
fondamentali: uno, che definirei della “rilettura supereroica”, che è poi
quello che ha fruttato i suoi lavori migliori; un secondo della “mitopoiesi
indie” [uso dei termini fantasiosi volutamente – tanto per tiramerla],
caratterizzato da una certa discontinuità tra la volontà di sperimentare strade
nuove e la riscoperta di forme di narrazione decisamente tradizionali. E infine
un terzo periodo definibile della “trasformazione in stereotipo”, in cui si
mischiano esposizioni eleganti di luoghi comuni a vacue celebrazioni di
mitologie d’occidente accompagnate ad una “cultizzazione” dell’autore anche ben
al di fuori dei circoli di lettori di fumetti (complice il cinema, certamente).
Il primo
periodo è – oggettivamente – l’unico imprescindibile. Tutta la rilettura di “Devil” – iniziata con Miller
giovanissimo – e per i primi tempi Roger Mac Kenzie alle sceneggiature –
dimostra una sensibilità e un’ansia di raccontare che ancora oggi lasciano
basiti. Le innovazioni nella costruzione della tavola, l’introduzione di uno
dei personaggi più affascinanti di sempre (Elektra, ovviamente), la
fascinazione per la cultura orientale, manga compresi, i rapporti decisamente
“adulti” tra i personaggi uniti ad atmosfere e trame fortemente hard boiled nonché
i potenti riferimenti al peccato nell’accezione cattolica (a cui – per esempio
l’Abel Ferrara de “Il cattivo tenente” è certo debitore) fanno di questo lungo
story arc uno dei vertici assoluti degli anni ’80.
“The dark knight returns” poi non
avrebbe bisogno di commenti – la demolizione e ricostruzione della figura di
Batman (e qui davvero si entra nei territori del mito e dell’epica
contemporanea) è il punto di partenza che qualsiasi lettura moderna dei
supereroi deve tener presente e ben lo ha capito Christopher Nolan
nell’impostare la sua trilogia cinematografica che – per quanto riuscita – non
eguaglia il pathos dell’opera Milleriana. A latere vale ancora la pena
sottolineare come la pervasività dei mass media sottolineata dalle fittissime
tavole alternate a spettacolari splash pages risulti oggi (sostituendo internet
e social network alla tv) ancor più profetica di quanto apparisse ai tempi[1].
Con “Ronin” e “Batman: year one” abbiamo produzioni appena più convenzionali, la
cui importanza appare più legata al contesto e meno “assoluta”. Eppure la
sontuosa eleganza del racconto delle origini di Batman, splendidamente
disegnate da un giovane e già immenso David Mazzucchelli e le avventure
fantascientifiche del samurai senza padrone, influenzate come non mai dai manga
ma anche da Sergio Toppi e Moebius (e non era una cosa tanto consueta nel
fumetto usa dei primi anni ’80, specialmente per una major come la Dc comics),
sono ancora oggi opere maiuscole, la cui rilevanza può essere sminuita solo se
raffrontata ad altre cose uscite nel periodo. Gli altri fumetti dell’epoca si
legano ancora alla figura di Devil: troveremo pertanto “Amore e guerra” –
splendida graphic novel, primo frutto del sodalizio con Bill Sienkiewicz,
incentrata sul rapporto tra il supereroe cieco ,il nemico di sempre Kingpin e
la moglie Vanessa; “Rinascita” ancora coi disegni di Mazzucchelli incentrata
sulla prima distruzione & resurrezione del supereroe. E poi i capolavori
legati ad Elektra ovvero “Elektra:
assassin” con gli splendidi dipinti di Sienkiewicz, autentico viaggio
all’inferno tra esaltazione e degradazione ed “Elektra lives again” – uscito nel 1990 ma in lavorazione già da
molto prima che Milller scrive e disegna sfoggiando uno stile minimale che
diverrà poi preponderante e Lynn Varley colora (come già avvenuto col Dark
Knight e con Ronin). Tra i collaboratori più importanti del Miller prima fase –
oltre alla Varley ai colori – è indispensabile segnalare anche Klaus Janson,
inchiostratore che contribuirà parecchio a forgiarne il tratto – specie in
Devil e nel Dark knight.
Ora –
intendiamoci – non è che in questa prima fase tutto sia perfetto. Soprattutto a
livello grafico Miler ha delle incertezze (ma è anche l’alto livello dei
collaboratori che aiuta a supplirle) e probabilmente alcune delle sue
intuizioni risultano tali solo “ a posteriori”
[lo stesso Janson ricordava – in un vecchio “comics Journal” come il
preteso simbolismo di una bottiglia - disegnata
più grande di una persona - partisse
all’inizio da un errore di prospettiva] – ma tutto ciò non né intacca minimamente
la grandezza anzi forse esalta ancor di più la frenesia creativa di quello che
fu per l’autore un periodo artistico irripetibile. Un momento in cui forse
proprio il fatto di lavorare su personaggi già esistenti ma un po’ decaduti gli
ha dato una grande libertà e una grande voglia di dimostrare cosa sapeva fare e
cosa “si poteva fare” usando dei “buffoni
in calzamaglia”.
Il secondo
periodo comprende gli anni ’90 e culmina con “Sin city”. È una produzione che
ha – fatta eccezione per “Devil: l’uomo senza paura” sorta di
“Daredevil: year one” che, per quanto gradevole, non ha lontanamente il fascino
di quello dedicato a Batman – abbandonato le major, per rifugiarsi nell’ambito
degli editori indipendenti (principalmente Dark Horse, proprio in quel periodo
in forte crescita). Le attese per “il
nuovo capolavoro di Miller” sono tantissime, specie dopo alcuni anni di
inattività, spesi soprattutto per tentare la strada del cinema[2].
I risultati sono altalenanti e fruttano, in prima istanza, “Give me liberty” per i disegni di Dave
Gibbons e “Hard boiled” per quelli
di Geoff Darrow. La prima delle due è l’inizio di una vera e propria epopea
futuribile americana con protagonista la soldatessa di colore Martha Washington
e che frutterà alcuni sequel (in particolare “Martha Washington goes to war” e “Martha Washington saves the
world”). Qui Miller e Gibbons (decisamente non all’altezza di “Watchmen”)
esplorano gli u.s.a. del futuro, dando sostanzialmente corpo ad una seconda
guerra civile americana, vista attraverso gli occhi di una inesperta (almeno
all’inizio) recluta dei Pax corps. L’esperienza di lettura è piacevole, Miller
vi riversa parecchie delle sue ansie politiche e talvolta perde il senso della
misura (non che sia la sua dote principale, ma in una storia così orientata
sulla SF un po’ di sobrietà non avrebbe guastato). A ben vedere il principale
difetto di “Give me liberty” è di essere ,in definitiva, gradevole e nulla più:
non certo quella nuova opera magistrale che il fandom, in spasmodica attesa,
aspettava.[3]
“Hard
boiled” – malgrado il titolo apparentemente programmatico – è sempre un
racconto di SF – da vedersi però come un divertissement
e come un modo per mettere in luce lo straordinario talento grafico di Geoff
Darrow – che realizza praticamente una sequenza di splash pages devastanti e
ultra dettagliate, dando corpo a una
trama che potremmo così riassumere: un cyborg impazzito distrugge qualsiasi
cosa che gli si para innanzi. A posteriori è un fumetto piacevolissimo – con un
retrogusto “Metal hurlant” che non
guasta. I due autori replicheranno qualche anno più tardi con “Big guy and Rusty the boy robot”,
decisamente più orientato verso una fantascienza “per ragazzi”, in qualche modo
richiamante diversi manga ed anime.
La
panoramica sul secondo periodo si completa considerando le due collaborazioni
con Todd McFarlane che – proprio in quel periodo – raccoglieva un enorme
successo col suo (allora) neonato “Spawn”. Si tratta del n.11 della serie
regolare e dell’ one shot “Spawn/Batman”
(che fa il paio col “Batman/Spawn pubblicato dalla DC, però realizzato da altri
autori, per i disegni di Klaus Janson – guarda la combinazione). In questi casi
va detto che la delusione è cocente e si tratta di due evidenti esempi di
quello che arriverà in tempi più vicini a noi. Miller non ha un cazzo di idea
che sia una e non si sforza più di tanto – l’operazione è puramente commerciale
nel senso peggiore che si possa immaginare. Quanto alle tavole di McFarlane
ammetto che a molti ragazzini dell’epoca – compreso il sottoscritto – potessero
piacere, ma oggi tanta roboante spettacolarità mi appare stancante già dopo
poche pagine.
Il
capolavoro tanto atteso comunque arriva – Frank smette di tergiversare e dà
corpo all’affresco noir di “Sin city”:
prima sulle pagine di “Dark horse presents” poi in miniserie autonome – per un
totale di sette volumi. Quando dico capolavoro non voglio assolutamente dare un
giudizio soggettivo – che anzi a me l’opera in questione di dubbi né
lascia più d’uno – ma piuttosto
oggettivo: ci troviamo di fronte infatti ad una summa dello stile di Miller; ad
un calderone nel quale riversa tante delle ossessioni narrative che lo hanno
condotto fin lì. Ci troviamo dentro “Pulp fiction” (di un anno prima, e che lo
ha evidentemente ispirato, quantomeno nella struttura “ad incastro” delle
sceneggiature); “The Spirit”: tra tutti i classici quello che certamente ha più
contribuito a forgiare il nostro e tanta letteratura e cinema noir o hard
boiled.
Difficile
non farsi affascinare almeno un po’ da “Sin city”, dal susseguirsi di
personaggi disperati e border line, spesso intenti a giochi rischiosi,
razionalmente incuranti delle conseguenze, con l’anima dannata e regalata per
sempre a dark ladies a cui è impossibile (di più: è sbagliato) resistere. La
scelta di illustrare tutto in bianco e nero è assai inconsueta e pone l’accento
su un tratto minimalista ed elegante, nuovamente ispirato da Toppi e dal
Giappone ma in modo diverso dal passato. A volte è proprio lo stile scelto –
fondamentalmente illustrativo, con abbondanza di vignette a pagina intera – a
cozzare con le esigenze narrative, senza contare alcune “licenze grafiche” che
– questione del tutto personale mi rendo conto – proprio non digerisco: ad
esempio la scena di lap dance nel primo volume o alcune automobili che paiono
volare. Ma non è questo in fin dei conti a lasciare perplessi quanto l’idea
stessa di voler strutturare tutta la serie come un excursus tra gli stilemi del
genere – quasi a voler inserire le proprie ossessioni e i propri archetipi
narrativi a forza nel corpo vivo della
mitologia noir, senza voler aspettare, come sarebbe giusto – e come in
definitiva il citazionista definitivo Tarantino ha pur sempre fatto - che questa fusione avvenga in modo spontaneo.
Ma forse sto solo cercando un modo contorto per dire che la lettura –
inizialmente esaltante – mi ha, col tempo, dato un senso di esagerazione, come
un frullato con davvero troppi ingredienti e solo pochi di prima mano. Il
problema è che rimanere delusi quando proprio non lo si vorrebbe acuisce le delusioni ancor di più
– e raccontarsi qualcosa di diverso non serve.
Sul terzo
periodo non varrebbe proprio la pena di soffermarsi se non per raccontare di un
autore finalmente accettato dalla cultura “che conta” proprio quando non ha più
molto da dire. Il cinema ci mette parecchio del suo. La co-regia (insieme a
Robert Rodriguez) di “Sin city” è forse l’evento più degno di nota in quanto il
film è, in un certo senso, sperimentale. È forse la prima volta che un fumetto
viene adattato pari pari, considerando le tavole e le sequenze (illuminazione
compresa) come inquadrature e scene fatte e finite. Il risultato è ottimo,
anche se non tutti sono d’accordo, anche meglio delle tavole disegnate.
L’altra
esperienza filmica – con regia del solo Miller – è “The spirit”. E definirla occasione sprecata è un gentile eufemismo. Il nostro si cimenta con
l’adattamento del suo fumetto favorito e piscia clamorosamente fuori dal vaso:
certe cose andrebbero semplicemente lasciate stare se non si hanno le idee più
che chiare. Per l’autocelebrazione del proprio mito ci possono essere altre
situazioni. E infatti ci sono: “300”;
“Dark knight strikes again”; “All stars Batman and Robin” disegnata
da un Jim Lee il cui stile è fermo ai primi anni ’90 e infine “Holy terror”. Non vale la pena di
sprecare tante parole se non per ricordare come un autore “santificato in vita”
troverà sempre recensori compiacenti qualsiasi ciofeca decida di cagare – salvo
qualche distinguo di natura politica proprio in corrispondenza del sacro
terrore. Poi va da sé: tutte le opinioni sono da rispettare anche se è
difficile accettare che il peplum nazi gay portato sullo schermo da Zack Snyder
possa essere ritenuto da taluni un capolavoro contemporaneo.
L’annunciata
storia in cui Batman avrebbe dovuto dare la caccia a Bin Laden per fortuna è
stata abortita sul nascere. L’uccisione di Osama dovrebbe cancellare – si spera
– qualsiasi ulteriore tentazione.
Il
problema di Miller – ritengo – è semplicemente l’essere stato scoperto (dai
media “ufficiali” intendo) con colpevole ritardo – in un momento in cui quello
che aveva da dire l’aveva già detto. Poi è stato eletto a mito vivente. E in
questa comoda posizione pare si trovi bene.
Ma io non
dispero…sarà una buona vita….buona abbastanza…[4]
Breve intervista del 1988
[1] Il
movimento “Occupy” nato principalmente sui social network è stato oggetto di
violente critiche da parte di Miller. La profonda diffidenza nei confronti dei
media si conferma in pieno.
[2]
Esperienza che frutterà la sola sceneggiatura di “Robocop 2”, peraltro poi
pesantemente rimaneggiata.
[3] In
Italia lo pubblicò “Nova express” in b/n, poi la collana “Nova comix” a colori
con relativi sequels, l’ultima edizione è quella Magic press.
[4] Parole
tratte dall’ultima pagina de “Il cavaliere oscuro” nella traduzione della
Milano libri.
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