Quel giorno che la fissavi con insistenza - Ma non sapevi
che dirle.
Quel giorno che lei che ti ha bollato per sempre come un mezzo
maniaco sfigato.
Quel giorno della tua più grande figura di merda. Si, proprio quella
che ti torna in mente ancora, quando di notte non riesci a prendere
sonno. Vent’anni dopo.
Lui era lì. Quando hai fatto le scelte fondamentali della tua vita.
Quasi sempre sbagliate.
Quando hai sbagliato le scuole superiori. Quando hai sbagliato
l’università. Quando hai accettato un lavoro del cazzo. Quando non
hai cagato la tipa innamorata di te perché ti piaceva la sua amica.
La sua amica che non sapeva neanche che esistevi.
Lui era li. Ogni volta che avresti voluto piangere. Ogni volta che
avresti voluto un abbraccio e non sapevi a chi chiederlo. Ogni volta
che ti veniva mal di testa ma sembravi solo stronzo. Ogni volta che
avresti voluto ruttare e scoreggiare rumorosamente e fanculo a tutti.
Ma poi no, rimandiamo l’uscita definitiva dal consesso civile a
data futura.
Lui era li. Come una bestemmia in chiesa. Come un’erezione
improvvisa al parco giochi. Come il sudore delle ascelle. Come
l’inadeguatezza. Come la rabbia.
Lui era li.
E rideva.
Ma era una risata affettuosa e persino gentile.
Come a dire ‘ehi, ci sono passato anch’io – ma che cazzo... sono
qui e non va nemmeno così male – per cui smettila di cagare il
cazzo con le tue disgrazie e vieni a fumare il sigaretto’ [il
sigaretto potrebbe essere un cannone – ma non lo so - rispetto la
sua privacy].
Una risata gentile, quindi. Per quanto possa essere gentile un
soggetto del genere.
Un piccolo omaggio all'indimenticata Silvia Dionisio - ovviamente con immagini che, dai cosidetti social, mi costerebbero la censura.
Silvia Dionisio fu una delle icone sexy degli anni '70, la troviamo in pellicole di notevole richiamo quali 'La ragazza di nome Giulio' (a cui deve inizialmente la sua fama), 'Ondata di piacere' (di Ruggero Deodato, col quale è stata anche sposata), 'Amici miei', 'Il comune senso del pudore' e tanti altri tra commedie, polizieschi e thriller. L'ultimo film a cui risulta aver preso parte è 'Murder Obsession' , canto del cigno del maestro Riccardo Freda (nel 1981).
venerdì 10 febbraio 2023
STARDUST
Un po' di belle foto dedicate essenzialmente a soggetti erotici - che hanno in comune il fatto che non so nulla ne in merito alle modelle rappresentate ne in merito all'autore/trice. Mi hanno colpito e ciò mi è bastato.
Nel panorama – molto più
variegato e interessante di quel che si potrebbe pensare – dell’
indie rock made in italy (che poi fosse cantato in italiano o meno
importa poco – anche perché molte band hanno sperimentato più
soluzioni in tal senso) i Ritmo Tribale rappresentano certamente uno
dei nomi più rappresentativi. Da più parti si possono trovare
paragoni con la scena grunge della quale loro furono contemporanei e
– in effetti – le commistioni di generi di cui a Seattle furono
specialisti sono un po’ quelle che la band milanese andava
praticando già dai tardi anni ‘80 suonando in giro per l’Italia
(con un particolare legame col centro sociale Leoncavallo). Ma – in
fondo – era una cosa abbastanza naturale per un gruppo
dell’epoca (ricordiamo che il loro primo album ‘maturo’ –
Kriminale – è del 1990) miscelare un background schiettamente
punk-hc per così dire ‘evoluto’ con rivalutazioni di tutto quel
che fu l’armamentario hard rock e metal anni ‘70. E – in qualche
modo (pur venendo da lidi certamente più new wave) era quello che
fecero i Litfiba di ‘El Diablo’ - con un risultato assai scarso
come esito artistico ma decisamente baciato dalla fortuna sotto
quello commerciale. 1
L’uscita di ‘Mantra’ nel
1994 è in realtà la mia scoperta dei Ritmo Tribale – grazie ai
soliti video che passavano su Video Music nelle mie scorpacciate
musicali , quelle volte che si riusciva a vedere. Non ricordo i pezzi in
questione (anche perché poi ‘Mantra’ non l’ho mai ascoltato
per intero) ma so che colpirono la mia fantasia, unendo (ricostruisco
a posteriori) indolenze psichedeliche estive con atmosfere
decisamente più sferzanti e derivate per esempio dai Soundgarden
(che nel 1994 conquistarono popolarità anche da queste parti – ma
erano già noti da anni) o magari anche dai Kyuss. In pratica io
cercavo i Pearl Jam o gli Alice in Chains italiani (o gli Stone
Temple Pilots – ma questi ultimi mi sono sempre stati sui
coglioni senza un vero perché) e questi sfattoni (termine che
all’epoca si usava) potevano rientrare nella definizione.
Nel 1995 usciva ‘Psycorsonica’
e così usai parte dei soldi che un mi fruttò all’epoca un
lavoretto di volantinaggio (più faticoso di quel che si poteva
pensare, non molto retribuito e rigorosamente in nero – per la
gioia dei patrioti di ieri e di oggi) per acquistare il cd. Devo dire
che la prima impressione non fu particolarmente positiva, anzi
conclusi presto che non mi piaceva. In parte colpa della voce di Edda
(Stefano Rampoldi) davvero troppo strana per il me stesso dell’epoca
(e lo dico oggi che ho comprato tutte le sue uscite da solista –
apprezzandole parecchio) , in parte forse per una tendenza
generalizzata ad atmosfere lisergiche e pochi svolazzi hard. E –
cosa parecchio importante per l’epoca, dato che noi tutti teenager d'allora eravamo cresciuti col mito dei ‘contenuti’ – testi
che procedevano per associazioni di idee ma forse non volevano dire
niente (niente di chiaro, perlomeno). Ma poi le cose finirono per
cambiare (e questo è un grande merito del tempo in cui la musica si
pagava: ormai che avevi sborsato, al disco in questione dovevi
concedere qualche possibilità di farti ricredere). Ci fu un periodo
in cui li ascoltavo davvero spesso finendo per preferirli a tante
altre cose e – per qualche assurda ragione – li immagino come
ottima colonna sonora per qualche post-apocalittico all’italiana
(fate conto ‘Fuga dal Bronx’ ma immaginatelo girato molto
peggio). Questo fu comunque l’ultimo album con la formazione al
completo, Edda uscì dal gruppo per inseguire le sue ossessioni (e
rimanendo in silenzio fino al 2009, anno in cui uscì il suo ottimo
esordio solista ‘Semper Biot’) e gli altri proseguirono comunque
anche
se in modo sporadico (pubblicando, in pratica, due album: uno nel
1999 e uno nel 2020 – al momento non li ho ascoltati e il secondo
ignoravo addirittura che esistesse almeno fino a poco fa).
1Sto
dicendo – in soldoni – che ‘El Diablo’ è un disco grunge?
Non in senso stretto, certo – però in qualche modo e nei limiti
della scena italiana si potrebbe anche pensarlo.
SKUNK
ANANSIE – LITTLE BABY SWASTIKA
Un
rimpianto della mia attività di ascoltatore musicale imberbe è
stato certamente quello di essere arrivato in deciso ritardo –
rispetto all’uscita – all’ascolto e all’apprezzamento dei
Rage Against the Machine: il loro esordio discografico era del 1992
ma io iniziai a conoscerli dopo (forse un anno dopo, forse due, non
ricordo) quando – immancabilmente – nelle ‘discoteche rock’
dell’epoca veniva messo su ‘Killing in the name of’ e – quasi
ritualmente – si concludeva con una festosa messe di dita medie
alzate e ‘fuck you, i won’t do what you tell me’. A me sta roba
piaceva assai ma nemmeno sapevo chi fossero (ma poi mi informai,
chiaro). Intanto mi piacevano i Red Hot Chili Peppers (anche
‘Give it away’ rientrava nei rituali del venerdì sera) ma anche
i Living Colour, i Faith No More e quella roba che si etichettava
come cross-over (pur trattandosi spesso di cose molto diverse tra
loro, sia per provenienza che per esiti sonori). Comunque – nel
timore di arrivare di nuovo in ritardo – mi precipitai ad
acquistare questo esordio degli Skunk Anansie (del 1995) –
preceduto proprio da ‘Little Baby Swastika’ come singolo e –
complessivamente – salutato da recensioni entusiastiche che
vedevano nella band di Skin e soci i nuovi alfieri di quello che
potremmo definire funk-metal con ampie dosi di impegno politico.
Diciamo
subito che non facevano niente di particolarmente inaudito: la furia
dei RATM era ben lontana, l’abilità compositiva dei migliori RHCP
anche e del senso epico e al contempo distaccato dei Faith No More
nemmeno l’ombra. Il paragone poteva starci coi Living Colour e –
soprattutto, col senno di poi – col Lenny Kravitz meno voglioso di
partecipare a sfilate di moda e più incline al rock dalle venature
black. Niente di sbagliato insomma, ma era meglio forse capirsi in
anticipo.
Specificato
questo devo anche dire che il primo Skunk Anansie rimane ottimo e ,
in particolare, continua a piacermi molto questo pezzo che unisce un
‘tiro non indifferente’ con un chiara presa di posizione anti
nazista e/o anti fascista: cosa questa di cui – purtroppo – si
continua a sentire il bisogno come allora e più di allora (e – a
ben guardare – certe derive iper-destrorse dell’oggi trovano
forse proprio in quell’epoca un loro inizio – non era solo
innocuo folklore allora come non lo è adesso). L’album comunque
conteneva vari pezzi degni di nota (tipo: Selling Jesus,
Intellectualise my blackness, Charity) senza, peraltro, particolari
cadute di tono. A partire dal secondo album (Stoosh , dell’anno
successivo) inizieranno un percorso molto più vicino al pop (e al
mondo della moda e a quelle robe li – certo Skin ha il fisico, è
brava e quel che volete ma certe cose – tipo fare la giudice nel x
factor italiano – ce le saremmo anche risparmiate). In pratica: il
paragone con Lenny Kravitz diventa certamente calzante anche se
quest'ultimo rimane un modello difficile da raggiungere e, per quanto
mi riguarda, l’effetto è circa lo stesso – robina gradevole da
ascoltare ma non granchè rilevante.
USTMAMÒ
– ONDE SULLE ONDE
Quando
mi ci accosto io, gli Ustmamò (dal vicino appenino reggiano – tra
Castelnuovo ne’ Monti e Villa Minozzo) sono già piuttosto noti:
hanno partecipato ad un festivalbar (almeno in un’occasione ricordo
di averli visti, perché si – in effetti – guardavo il
festivalbar più o meno senza vergogna), hanno pubblicato 2 album
(omonimi tutti e due) e si sono esibiti live come parte del consorzio
produttori indipendenti facente capo agli ex cccp e attuali csi
Ferretti e Zamboni (insieme ai Discplinatha e agli stessi c.s.i.
hanno pubblicato il live ‘Maciste contro tutti’). E proprio ai
cccp si deve forse guardare come influenza primaria per i loro primi
album ma magari anche ai Mano Negra (quantomeno come attitudine). E
comunque si – ammettiamolo – i primi due lp degli Ustmamò sono
belli nel loro unire punk talora sbarazzino , folk locale e un po’
di varie altre cose in un insieme di ‘pesante leggerezza’ che può
lasciare anche discretamente euforici. Sono belli , certo, ma a me di
quelle cose – all’epoca – mi importava poco. Mi importava
del rock in senso canonico oppure del rap o magari di strane
mescolanze elettroniche che venivano perlopiù dalle terre d’Albione,
cose di cui tutti si riempivano la bocca – temo – anche ben prima
di averle ascoltate in maniera adeguata; cose di cui pareva arrivarmi
più il sentore che non la sostanza. Ma era un momento eccitante in
effetti – quando ti accosti a cose che non capisci bene ma che ti
affascinano è sempre una bella cosa, per cui va bene, nel calderone
ci si infila tutto: trip hop, jungle (il termine drum’n’bass non
pareva ancora in uso), dub, big beat, ambient - e che differenze ci
siano tra l’una e l’altra cosa (ci sono e pure belle grosse) mica
lo sapevo – ma non dubitavo che l’avrei capito prima o poi. Nel
momento in cui giunge la notizia che anche gli Ustmamò avrebbero
pubblicato il nuovo album fortemente influenzati da quelle sonorità
(ma quali di preciso ? Essenzialmente il Bristol sound, verrebbe da
dire) ecco che mi trovo a riconsiderarli. Quindi, con la produzione
di Roberto Vernetti (ex Aereoplaniitaliani e produttore di punta del
pop elettronico italiano di quegli anni: collaborò coi Casinò
Royale, LaCrus, Frankie Hi-NRG ma ricordiamo che esordì come
bassista degli Indigesti) ecco uscire – ad inizio 1996 – Ust. E
iniziamo subito col dire che si tratta davvero di un buon lavoro,
anzi potremmo spingerci a definirlo come uno degli atti fondanti di
un pop italiano ‘al passo coi tempi’. Si alternano atmosfere
eteree non distanti dai Massive Attack più statici (‘Cuore –
Amore’ riuscitissimo pezzo d’apertura) con micro drammi
traslucidi degni dei Portishead (‘Piano con l’affetto’, in cui
l’interpretazione vocale di Mara Redeghieri tocca livelli davvero
alti), in altri pezzi si procede con un’elettronica forse più
tradizionale (post wave e/o cascami industrial che guardano alla
techno – per dirla in modo proprio grezzo) ma assolutamente
efficace (‘Canto del vuoto’ uno dei vertici dell’album, la
drammatica ‘Onde sulle onde’, la simpatica ‘Indice di Borsa’).
Altrove si creano canzoni decisamente pop e radiofoniche che
funzionano parecchio bene ma forse non reggono granchè il tempo
(‘Memobox’ , ‘Baby Dull’), in altre occasioni, ancora, il
richiamo alle tradizioni è più presente (‘Biguldun’ niente di
che e ‘Siamo i ribelli della montagna’ rilettura di un canto
partigiano che era un loro pezzo forte live e che è sempre un
piacere ascoltare). E dopo ?
Beh,
non me lo spiego bene, ma per me gli Ustmamò sono tornati da dove
erano venuti: hanno pubblicato almeno altri due album di pop
elettronico di buona fattura (stando alle recensioni) ma io non li ho
più presi in considerazione. Dopo lo scioglimento si sono anche
riformati pubblicando ben due album definiti dalla critica folk rock
(il primo dei quali addirittura in Inglese) , dimostrando perlomeno
di continuare a non farsi problemi a cambiare genere (come sono
questi dischi? Ovviamente non lo so). Mara Redeghieri (non più nella
band) ha pubblicato un album da solista seguito dalla versione remix
– mi è capitato di ascoltarlo e non è malaccio (ma se non lo
trovate non disperatevi).
PASSENGERS
– ELVIS ATE AMERICA
Da
non confondersi con un gruppo pop rock abbastanza recente, questi
Passengers non sono altro che gli U2 in ‘formazione aperta’ cioè
– in pratica – con l’aggiunta in pianta stabile di Brian Eno e
la collaborazione di diversi altri musicisti. L’album – uscito
nel tardo 1995 – si intitolava ‘Original Soundtracks vol.1’ (a
cui – peraltro – non fece mai seguito un volume 2) e il titolo è
già abbastanza esplicativo. Anche se poi non tutto si
può semplicemente ricondurre ad un’attività di musica da film o
sonorizzazione di video (dalle ambizioni più o meno arty). Almeno
non lo si può dire per quello che forse è il pezzo più noto (e
anche l’unica pop song in senso stretto) ossia quella ‘Miss
Sarajevo’ che i nostri presentarono a Modena, durante l’evento
Pavarotti & friends proprio nell’estate 1995 [tra parentesi:
c’era la guerra nell’ex Jugoslavia – una guerra iniziata alcuni
anni prima e che ci metterà ancora parecchio a finire: lo dico
giusto come promemoria per tutti quelli che amano dire che prima
dell’Ucraina ‘era dal 1945 che non c’era una guerra nel cuore
dell’Europa']. Diciamo subito che ‘Miss Sarajevo’ sarebbe
comunque (al di la delle buone cause) una canzone piuttosto bella,
peccato per il contributo del Lucianone nazionale che tentava in
tutti i modi di rovinarla, peraltro senza riuscirci del tutto. Ma
all’epoca avevo questo conto in sospeso con gli U2 (come ho già
spiegato) , per cui avevo deciso che mi piacevano, ma avevo anche
deciso che – dopo ‘Zooropa’ – avrebbero dovuto fare qualcosa
che proseguisse su quella linea ma che fosse – diciamo così –
ancora più estremo. L’uscita di questo cd mi vide quindi
entusiasta: Bono & co si ponevano sulla scia del mentore Brian
Eno e se ne uscivano con qualcosa di sostanzialmente ambient – un
po’ sulla falsariga di ‘Music for films’ (uscito nel 1978 –
era però una colonna sonora ‘per film immaginari’ e poi io ne
avevo sentito parlare ma non certo ascoltato) . A conti fatti va
detto che ci troviamo di fronte a un progetto discontinuo , con
alcune cose buone ma niente di veramente entusiasmante: troviamo l’estatica ‘Your blue room’ – parte della colonna sonora
di ‘Al di la delle nuvole’ di Win Wenders e Michelangelo
Antonioni che fa un po’ lo stesso effetto del film, cioè uno strano
incrocio di ammirazione e sbadigli belli grossi (e più o meno dalle
stesse parti stanno ‘Beach Sequence’ e ‘A different kind of
blue’ – ambient certo ma di quella che scorre via senza infamia
ne lode); troviamo poi l’adrenalinica ‘One minute warning’
facente parte della ost di ‘Ghost in the Shell’ (capolavoro anime
del compianto Mamoru Oshii – tratto dal manga di Masamune Shirow)
breve e poco significativa ma carina (e che mi ricorda un tantino la
‘We have explosive’ dei Future Sound of London – che però
uscirà più di un anno dopo) ; ‘Elvis ate America’ è – che
io sappia – la prima collaborazione con Howie B – non è grancosa
ma ha questa atmosfera da ‘dark blues’ che anticipa parecchie
tendenze a venire (anche se non viene dal nulla, chiaro) ed è un
pezzo simpatico - proviene da un progetto di Jeff Koons del quale
tutto ignoro. Il resto del disco non lo ricordo e – avendolo
venduto a suo tempo – non ho nemmeno modo di riascoltarlo – e
comunque non ne avrei voglia.
THE
DOORS – END OF THE NIGHT
Ah,
i classici. Se non conosci i classici poi non venire a rompere i
coglioni. La musica di una volta era meglio, tempi così non
torneranno mai. Ok, vi riconoscete ? Avete giusto fatto questo
discorsino ad un sedicenne che sta ascoltando i suoi pezzi trap
preferiti – per una volta senza auricolari ? Ah, come i Led Zeppelin
(o altro nome, vedete voi) nessuno mai – dite – senza specificare
che ai Led Zeppelin avete dato giusto un ascolto distratto 20 anni fa
e vi ricordate quella canzone li...dai quella bella...quella del
paradiso – minchia si, altro che trap.
Questo
per dire che quella gente li c’è adesso, c’era una volta e
(apocalisse permettendo) ci sarà ancora – ma mica vanno presi sul
serio. Eppure l’ascolto dei classici un senso ce l’ha – e la
cosa più bella è accostarvisi da ignoranti – non totali ma quasi:
consapevoli del tempo passato ma – prima di ogni possibile
contestualizzazione (che - credeteci o no - con la pratica viene da
se) limitarsi ad usare le orecchie, ascoltare e farsi un’idea.
Per
quanto riguarda me: da qualche parte dovevo partire. Avevo già
ascoltato una poverissima compilation dedicata a gruppi anni ‘60
(poverissima solo nella confezione – chè c’erano dentro
Jefferson Airplane, Byrds, Grateful Dead, 13th Floor Elevators, Count
Five – roba che apprezzai all’istante ma ancora di più alcuni
anni dopo). Nel frattempo però la mitizzazione dei Doors (dei Doors
? Di Jim Morrison, punto e basta) aveva toccato livelli
imbarazzanti. Si perché il film di Oliver Stone del 1991 oggi mi
pare una stronzata ma , al ‘ribelle’ (de stocazzo) quattordicenne
di allora, fece ben altro effetto, senza contare quel breve libretto
illustrato dal grande (grande in altri casi, qui non tanto –
intendiamoci) Roberto Baldazzini: si trattava di una sorta di
‘biografia sentimentale’ di Morrison scritta da quel Pino Cacucci
che in certi casi non era neanche male (ma questa se la poteva
evitare). Senza contare milioni di frasi attribuite al re lucertola –
vere o apocrife che fossero – scritte su vagonate di diari, muri,
magliette ed esibite di norma da tipi assai fighi e dalle loro fidanzatine (gente che – se vi concentrate – oggi non faticherete ad
immaginare ad un concerto di Vasco). Ora, su queste frasi andrebbe
aperto un capitolo a parte; io non saprei giudicare quali il vate Jim
scrisse davvero o effettivamente pronunciò (questo perché – anche
sul web – la fonte non viene quasi mai citata: canzone, poesia,
intervista che fosse) ma – diciamocelo una buona volta – il tempo
non è stato generoso con tali enunciazioni: la maggior parte di esse
risulta di tale e tanta banalità da farmi vergognare per il solo
fatto di averle lette e penso che nemmeno un ipotetico incrocio tra
Vasco, Gramellini e Fabio Volo riuscirebbe oggi a prendere sul serio
quelle cose li (ma erano davvero altri tempi – e in questo caso una
contestualizzazione è necessaria sul serio).
Ma
poi prendi in mano il disco (all’epoca preso in cd – in offerta
speciale): è l’esordio omonimo del 1967. E capisci perché i
classici vanno ascoltati e perché gli artisti si giudicano dalla
loro arte e non dalla loro vita (che può essere più o meno
bella/dannata brutta/noiosa - ma poi davvero io che ne so? Cioè, li
conosco? Li ho mai conosciuti? Li conoscerò mai? - le loro opere
però quelle si che posso conoscerle e non vedo davvero perché
dovrebbe servirmi altro). I Doors riescono subito a colpire con un
pezzo tuttora famosissimo ‘Break on through (to the other side)’
ed emergono come immediati segni di riconoscimento l’organo di Ray
Manzarek e (qui si che bisogna parlarne bene) la voce e la presenza
carismatica di Jim Morrison. Poi si prosegue con pezzi molto famosi
tipo ‘Alabama Song’, la mitologica ‘Light my Fire’ (che - se
la sfrondiamo da quanto può aver rotto il cazzo rimane un gran bel
sentire), la cupissima ‘The End’ posta (ovviamente) in chiusura,
psichedelico flusso di coscienza e tipica jam blues free form che
chiudeva e chiuderà tanti vinili di allora – senza smettere mai di
risultare inquietante e – per vie traverse – liberatorie. Ma
anche tutto il resto del disco, davvero, conosce ben poche cadute di
tono, tanto che, dovendo scegliere un solo pezzo, mi concentrai sulla
darkeggiante ‘End of the night’.
Anni
dopo comprai anche il secondo album (‘Strange Days’ sempre del
1967) trovandolo quasi di pari livello con questo (e non privo di una trasversale influenza su un po’ della
new wave che arriverà dieci o più anni dopo). Tutto il resto ce l'ho
archiviato in forma di file e – mi dico – lo ascolterò prima o
poi – album per album, canzone per canzone – come deve essere
fatto.
Outside (il cui titolo esatto
sarebbe ‘1.Outside’) è stato il primo album di David Bowie che
ho acquistato. Praticamente subito dopo l’uscita (autunno 1995). Il
fatto è che Bowie è da sempre al vertice delle mie preferenze e
questo album si presentava come un qualcosa di imperdibile. Era un
concept basato sulla figura di Nathan Adler – detective della
sezione crimini artistici – che si trova ad indagare sull’omicidio
di tale Baby Grace e – nel corso delle indagini – si imbatte in
personaggi parecchio bizzarri. In pratica: un disco prodotto da Brian
Eno (come la trilogia berlinese: da me non ancora ascoltata per
intero ma già ampiamente mitizzata) che rimandava nei temi trattati a quelle cose che tanto mi piacciono, un po’ di William
Burroughs, un po’ di Philip K. Dick, David Lynch, magari Grant Morrison e
tanti altri.
In realtà l’ascolto non mi
conquistò immediatamente perché - in effetti – il discorso è
più complesso di quanto appare e tutto il sottostante – sia
musicale che narrativo – è cosa molto sentita e che non si
esaurisce in modo superficiale. Alla perplessità iniziale si sostituì
col tempo un piacere autentico ma anche la delusione perché non
venne mai presentato l’agognato seguito dell’album (avrebbe
dovuto essere la prima parte di una trilogia). La critica –
all’uscita – incensò davvero Outside, qualcuno si spinse a
parlare di capolavoro ma – già negli anni successivi – questa
visione si stemperò molto e l’album viene perlopiù (salvo
eccezioni, chiaro) dipinto come una cosa non completamente riuscita.
Io lo considero, invece, un capolavoro autentico nonché la cosa
migliore di Bowie di tutti gli anni ‘90 (altri capolavori vennero –
ma più avanti). La canzone che propongo è tra le più immediate e
martellanti e devo dire che mi piace ancora tanto (in rete potrete
trovarne anche una versione realizzata coi Pet Shop Boys). Altri
pezzi notevoli: ‘The Motel’; la title track, I’m Deranged,
Strangers when we Meet'.
NEGRITA – PARADISI PER ILLUSI
Per qualche strano motivo
volevo che mi piacessero i Negrita. Cioè: avevo anche provato ad
ascoltare Ligabue e i Litfiba ma proprio non li digerivo. Gli aretini
mi sembravano un buon compromesso: rock italiano che puntava al
mainstream ma senza svaccare troppo e con buona proprietà sonora.
Nel 1994 avevano pubblicato un buon esordio (che non era certo un
capolavoro, in effetti – ma occorre valutarlo nel contesto) e nel
1995 se ne escono con un ep di 6 pezzi ‘Paradisi per illusi’. Lo
compro e dopo pochi ascolti me ne pento. Si ok, sempre meglio di
quella minchiatona incagabile che fu ‘Buon compleanno Elvis’ del
Liga nazionale (uscito grossomodo nello stesso periodo – me lo
passarono e fu comunque un successo enorme) ma sentivo che la mia
strada non passava di li. Oggi sono più accondiscendente e devo
ammettere che – in alcuni pezzi almeno – non erano davvero male.
Due anni dopo uscì XXX e giustamente viene ricordato come quella
ciofeca che era (con versi memorabili quali ‘fare sesso nascosti
nel cesso, fumarsi una Marlboro dopo l’amplesso) ma forse ha
aiutato la band a trovare una sua dimensione mantenendo un impianto
classicamente rock blues che andasse a flirtare col pop di tutto il
mondo (senza scimiottamenti grunge, che nelle prime cose erano certo
presenti – ma erano i tempi). Per cui concludo dicendo che oggi –
a tanto tempo di distanza – non comprerei un disco dei Negrita e
non andrei ad un loro concerto (salvo che sia gratis e vicino a casa)
ma se passano in radio non mi dispiace.
SMASHING PUMPKINS – GALAPAGOS
‘Mellon Collie and the
Infinite Sadness’ usciva nel 1995 e davvero non so se considerarlo
la colonna sonora di un periodo parecchio triste (tristezza infinita non saprei, abbastanza grossa comunque) o come una sorta di medicina
per reagire al tedio esistenziale. Ma in realtà è – chiaramente –
tutte e due le cose. La band di Billy Corgan non mi era completamente
nuova e d’altronde quello che forse è il loro capolavoro (Siamese
Dream) usciva due anni prima e qualcosa avevo avuto modo di sentire.
Ma sinceramente mi ero quasi dimenticato che esistessero fino
all’uscita di questo ambizioso doppio album e della pletora di
recensioni entusiastiche che lo accompagnarono. Recensioni che spesso
mettevano in risalto certe influenze che parevano richiamarsi al prog
anni ‘70 che – si ammettiamolo – veniva visto come cosa brutta
brutta ma che Corgan e soci riuscivano a nobilitare e trascendere. In
realtà – almeno per me – le influenze prog non sono poi così
presenti (anche se poi non ci sarebbe niente di male, in verità e
col senno di poi) e siamo comunque in presenza di un album grunge a
tutti gli effetti – certo le atmosfere a volte si dilatano ma
l’ispirazione sembra venire molto più dalla new wave e financo
dallo shoegazing che non da altro. O forse dal glam di Todd
Rundgreen, Roxy Music o David Bowie – ma poi poco importa.
‘Galapagos’ rimane per me un gran pezzo – non il più noto ne
il più rappresentativo dell’album e nemmeno il più bello. Diciamo
che – all’epoca – contribuì a spostare il baricentro dei miei
ascolti ma – ovviamente – me ne rendo conto solo ora. Dopo Mellon
Collie gli S.P. hanno pubblicato diversi altri album (l’ultimo è
del 2020) – alcuni anche belli – ma non hanno più avuto ne mai
più avranno il rilievo che avevano in quegli anni grigi.
BLACK GRAPE – TRAMAZI PARTI
Il Brit Pop era – all’epoca
– una delle mie passioni. Ma era, in effetti, una passione
piuttosto fresca; come dire: mancava delle basi. A meno che per
basi non si intendesse una percezione mitizzata della swinging London
degli anni ‘60. Tutta la scena indie-dance madchesteriana me la ero
praticamente persa, i Primal Scream li avevo conosciuti solo nella
loro veste passatista (apprezzabile
in verità – ma non significativa come l’altra), conoscevo gli
Suede ma non riuscivo ,in effetti, a contestualizzarli. Però
– per questioni di sfumature poco calcolabili – mi piacevano gli
Happy Mondays e gli Stone Roses: mi piacevano senza quasi averli mai
sentiti, intendiamoci. Cioè forse qualche pezzo si – poco roba,
magari del tutto a caso, in ora tarda su Video Music (che a casa mia
raramente si prendeva – e allora quelle pochissime volte che
funzionava a dovere ne guardavo delle ore in fila – alla lunga mi
stancavo anche – per fortuna Red Ronnie me lo sono sempre schivato
però). Così, quando esce questo esordio dei Black Grape (autunno
1995), apprendo che ci sono dentro degli ex Happy Mondays (Shaun
Ryder, cantante e un po’ il motore del tutto ma anche Bez,
suonatore di maracas e dedito – oserei dire – al cazzeggio). Lo
compro unicamente perché – pochi giorni dopo aver letto
un’entusiastica recensione – me lo trovo davanti paro paro in un
negozio
di dischi (per nulla ‘alternativo’). Il faccione giallastro in
copertina sembra dirmi ‘comprami testa di cazzo, se non lo fai tu
nessuno lo farà’ (e – almeno nel contesto di quel negozio e
forse del paese tutto è certamente vero). Comunque sia, lo acquisto e
poi lo ascolto: ci sono, rispetto agli Happy Mondays, come dire
‘affinità e divergenze’ ma
in realtà questo verrò a capirlo solo dopo. Comunque è un disco
che potremmo definire semplicemente come funk e con un’attitudine
cazzona che si sente bene. Sulle prime ho qualche perplessità ma poi
inizia a piacermi e anche molto. Preferisco forse i pezzi meno noti –
magari la scelta dei primi due singoli non è così azzeccata – ma
poi che importa. Col tempo realizzano altri 2 dischi (uno nel 1997 e
uno nel 2017) e – sempre col tempo – anche gli Happy Mondays
torneranno. Certo i giorni di Madchester non torneranno invece più –
e io ho tutti i diritti di essere nostalgico proprio perché mi
trovavo da tutt’altra parte.
U2 – HOLD ME, THRILL ME, KISS
ME, KILL ME
Ok – fuori da ogni discorso
sulla soggettività dei gusti – questa è un tantino imbarazzante.
Vediamo di capirci: mi piacevano gli U2 e mi piaceva Batman. Gli U2
venivano da una serie di dischi notevoli e – solo due anni prima –
avevano sfornato quello che per me rimane la loro cosa migliore ossia
‘Zooropa’ (i fan di Bono & co non sono assolutamente
d’accordo – ma - come non mi stanco di ripetere – è gente che
tendenzialmente non capisce un cazzo). Inoltre avevo bisogno di una
band da – per così dire – idolatrare. Cioè,
cazzo, ce l’avevano tutti una band da idolatrare: i Pink Floyd
magari (ma era giusto uscito ‘The division Bell – porca troia che
disco di merda, non scherziamo), gli Iron Maiden forse (non ero
abbastanza metallaro), i Queen (ma dopo la morte di Freddie Mercury
sembrava piacessero a tutti: io non li gradivo più di tanto e
comunque non ero necrofilo) – certo c’erano i Nirvana (ma il
fucile di Kurt sembrava ancora caldo e io ancora necessitavo di
rassicurazioni). Così – per farla breve – decisi che mi
piacevano
gli U2 anche quando pubblicavano schifezzuole come questa – lo
decisi e ci credetti fermamente almeno per alcune settimane. Il film
‘Batman Forever’ (col cavaliere oscuro interpretato di Val Kilmer
e diretto da Joel Schumacher) non l’ho mai visto ma tutti lo
descrivono come una schifezza (o una simpatica schifezza – i più
generosi). Comunque – ad oggi – il miglior film su Batman per me
è quello uscito alcuni mesi fa, diretto da Matt Reeves (lo
preferisco anche alla trilogia di Nolan). E – sempre saltando di
palo in frasca – ricordo che anche Prince si scornò ai tempi del
Batman di Tim Burton – realizzando una sua ‘Bat dance’ di
enorme successo commerciale ma che possiamo ben ricordare come una
minchiatella imbarazzante. Comunque – tornando al mio rapporto con
gli U2 – attesi con fiducia l’uscita di ‘Pop’ – annunciato
come il loro album ‘elettronico’ e va detto che, anche se le
aspettative furono in larga parte deluse da un prodotto molto più
attento a piacere alle masse che non ad altro, qualcosa li dentro
ancora si salvava. Da li in avanti però non li ho più seguiti –
ho provato ancora ad ascoltarli ma li ho trovati irrilevanti e - a
tratti – sinceramente vacui. Non mi servono punti di riferimento.
Ho tanti musicisti che amo alla follia ma non saprei sceglierne uno
solo. Non sono fan di qualcuno in particolare e di un autografo non
saprei cosa farmene. [Ma mi perdono].
Posso fornire due versioni su
cosa sia questa ennesima proposta di canzoni e video senza apparente
capo né apparente coda. Premetto comunque che non ha intenzione di
sostituire altre iniziative ma è solo un’aggiunta. O forse un
tentativo di guardarsi alle spalle: cercando di sciogliere il dubbio
atroce se sia passato qualche secolo o pochi secondi.
Versione 1
A partire dagli anni ‘90 –
cioè da quella che potrei definire la mia adolescenza e post
adolescenza (ma preferirei usare il termine onnicomprensivo ‘pre–post
adolescenza’: che di certe cose è difficile soprattutto coglierne
il ‘durante’) – ho cominciato ad acquistare album musicali con
un certo metodo. Si trattava – all’inizio – esclusivamente di
compact discs: all’epoca andava quello e il vinile pareva relegato ai
nostalgici e ai dj e inoltre io il giradischi non l’avevo (lo
comprai poi – ma eravamo già in pieni anni 0 – direi di averlo
pagato in euro). Siccome i cd non è che costassero poco, mi rompeva
assai pagare per un qualcosa che poi non mi piaceva – e però mi
rompeva anche l’acquisto ‘a colpo sicuro’: avevo necessità di
sperimentare ed ero conscio che la piena comprensione di un oggetto
musicale era uno di quei frutti da lasciar maturare con la dovuta
calma. Altrimenti avrei potuto fare la fine di quelli che compravano
solo dischi dei Pink Floyd o degli Ac-Dc o di chi minchia volete voi.
Mi imposi pertanto una regola (che seguo tuttora – tra varie
difficoltà) ossia quella ‘dei tre ascolti’. Nella pratica si
traduce nel fatto che una qualsiasi emissione sonora che mi passa per
le mani (intenso: volontariamente) devo ascoltarla per almeno 3
volte: ascolti attenti, con tutta calma, nella posizione più gradita
al momento ma sempre con l’attenzione rivolta alla musica.
Dopodiché posso anche proseguire per mille volte o tenendo il disco
in sottofondo mentre faccio altro (tipo depilarmi lo scroto) – ma è
facoltativo. Al termine dei 3 ascolti scelgo un pezzo che va a far
parte dei miei archivi, sorta di diario sonoro dei miei ascolti e un
po’ (ma solo un po’ – chè non bisogna esagerare) anche della
mia vita. Non si tratta necessariamente della canzone migliore e
nemmeno della mia preferita, diciamo che è quella che mi colpisce di
più secondo un criterio del tutto variabile. Partendo dal 1995
(credo) ve le propongo: ci saranno anche cose imbarazzanti, ma
sarebbe più imbarazzante se non ci fossero.
Versione 2
Dal pianeta Scozzo –
tecnologicamente avanzatissimo ma con una società molto simile a
quella del Giappone feudale – atterrò sul nostro pianeta (in un
anno imprecisato – ma comunque erano gli anni ‘70) un viaggiatore
dello spazio-tempo dal nome impronunciabile che – per comodità –
si faceva chiamare Mitsu Sciosciammocca. Nel suo soggiorno terrestre
prese ad esercitare l’attività di dj (col preciso scopo di
copulare con donne e/o uomini terrestri) in un club nei sobborghi di
Chicago (o forse era Caracas o forse Varese – la storia a volte si
fa confusa). Dovette però interrompere ogni attività (dopo aver
fattivamente contribuito alla nascita dell’ hip hop) quando venne a
sapere che l’operato criminoso di alcuni petomani quantistici
rischiava seriamente di minare il continuum spazio temporale che
caratterizzava il nostro universo da svariati millenni. Prima di
imbarcarsi in una missione suicida per la salvezza della struttura
stessa della nostra realtà registrò una cinquantina (più o meno)
di nastri. Me li consegnò dicendo queste parole: ‘ Se non dovessi
farcela ascolta queste cassette e troverai il codice per decriptare
l’ingresso al multi-verso e dare una nuova possibilità al mondo –
altrimenti la realtà finirà per implodere su se stessa e
assisteremo ad una sorta di big bang al contrario’. Dj Mitsu non ce
l’ha fatta e, prima di rimanere annegato dall’empio bukkake col
quale i suoi nemici petomani lo stavano per intrappolare, ha preferito
commettere seppuku - con la sacra Katana del maestro Antonello
Tsukamoto. La realtà pare abbia già cominciato a frantumarsi; il
processo è lento ma inesorabile a meno che non venga scoperto il
codice. Io le cassette le ho ascoltate ma non ci ho capito una
minchia. Per cui ve le propongo un po’ alla volta sperando che
qualcuno possa fare meglio di me.
Chiudiamo con queste ultime foto la rassegna dedicata alla mitica Bettie Page - si tratta di una serie di foto abbastanza nutrita che - negli ultimi anni (complice ripetute censure ricevute da facebook) - ha reso questo blog praticamente monotematico. Ovviamente ci sarebbero molte altre foto di Bettie da mostrare ma io non ho alcuna pretesa di completezza: consultando l'indice del blog ne troverete più di 300, alcune rare altre molto note. Ovviamente ci sono siti e pubblicazioni apposite per un approccio maggiormente filologico - il mio è stato solo un atto di ammirazione puro e semplice.