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martedì 21 giugno 2022

Dagli Archivi

 RITMO TRIBALE - 2 MILIONI 


Nel panorama – molto più variegato e interessante di quel che si potrebbe pensare – dell’ indie rock made in italy (che poi fosse cantato in italiano o meno importa poco – anche perché molte band hanno sperimentato più soluzioni in tal senso) i Ritmo Tribale rappresentano certamente uno dei nomi più rappresentativi. Da più parti si possono trovare paragoni con la scena grunge della quale loro furono contemporanei e – in effetti – le commistioni di generi di cui a Seattle furono specialisti sono un po’ quelle che la band milanese andava praticando già dai tardi anni ‘80 suonando in giro per l’Italia (con un particolare legame col centro sociale Leoncavallo). Ma – in fondo – era una cosa abbastanza naturale  per un gruppo dell’epoca (ricordiamo che il loro primo album ‘maturo’ – Kriminale – è del 1990) miscelare un background schiettamente punk-hc per così dire ‘evoluto’ con rivalutazioni di tutto quel che fu l’armamentario hard rock e metal anni ‘70. E – in qualche modo (pur venendo da lidi certamente più new wave) era quello che fecero i Litfiba di ‘El Diablo’ - con un risultato assai scarso come esito artistico ma decisamente baciato dalla fortuna sotto quello commerciale. 1

L’uscita di ‘Mantra’ nel 1994 è in realtà la mia scoperta dei Ritmo Tribale – grazie ai soliti video che passavano su Video Music nelle mie scorpacciate musicali , quelle volte che si riusciva a vedere. Non ricordo i pezzi in questione (anche perché poi ‘Mantra’ non l’ho mai ascoltato per intero) ma so che colpirono la mia fantasia, unendo (ricostruisco a posteriori) indolenze psichedeliche estive con atmosfere decisamente più sferzanti e derivate per esempio dai Soundgarden (che nel 1994 conquistarono popolarità anche da queste parti – ma erano già noti da anni) o magari anche dai Kyuss. In pratica io cercavo i Pearl Jam o gli Alice in Chains italiani (o gli Stone Temple Pilots  – ma questi ultimi mi sono sempre stati sui coglioni senza un vero perché) e questi sfattoni (termine che all’epoca si usava) potevano rientrare nella definizione.

Nel 1995 usciva ‘Psycorsonica’ e così usai parte dei soldi che un mi fruttò all’epoca un lavoretto di volantinaggio (più faticoso di quel che si poteva pensare, non molto retribuito e rigorosamente in nero – per la gioia dei patrioti di ieri e di oggi) per acquistare il cd. Devo dire che la prima impressione non fu particolarmente positiva, anzi conclusi presto che non mi piaceva. In parte colpa della voce di Edda (Stefano Rampoldi) davvero troppo strana per il me stesso dell’epoca (e lo dico oggi che ho comprato tutte le sue uscite da solista – apprezzandole parecchio) , in parte forse per una tendenza generalizzata ad atmosfere lisergiche e pochi svolazzi hard. E – cosa parecchio importante per l’epoca, dato che noi tutti teenager d'allora eravamo cresciuti col mito dei ‘contenuti’ – testi che procedevano per associazioni di idee ma forse non volevano dire niente (niente di chiaro, perlomeno). Ma poi le cose finirono per cambiare (e questo è un grande merito del tempo in cui la musica si pagava: ormai che avevi sborsato, al disco in questione dovevi concedere qualche possibilità di farti ricredere). Ci fu un periodo in cui li ascoltavo davvero spesso finendo per preferirli a tante altre cose e – per qualche assurda ragione – li immagino come ottima colonna sonora per qualche post-apocalittico all’italiana (fate conto ‘Fuga dal Bronx’ ma immaginatelo girato molto peggio). Questo fu comunque l’ultimo album con la formazione al completo, Edda uscì dal gruppo per inseguire le sue ossessioni (e rimanendo in silenzio fino al 2009, anno in cui uscì il suo ottimo esordio solista ‘Semper Biot’) e gli altri proseguirono comunque anche se in modo sporadico (pubblicando, in pratica, due album: uno nel 1999 e uno nel 2020 – al momento non li ho ascoltati e il secondo ignoravo addirittura che esistesse almeno fino a poco fa).

1Sto dicendo – in soldoni – che ‘El Diablo’ è un disco grunge? Non in senso stretto, certo – però in qualche modo e nei limiti della scena italiana si potrebbe anche pensarlo. 

 

 SKUNK ANANSIE – LITTLE BABY SWASTIKA 

 


 

Un rimpianto della mia attività di ascoltatore musicale imberbe è stato certamente quello di essere arrivato in deciso ritardo – rispetto all’uscita – all’ascolto e all’apprezzamento dei Rage Against the Machine: il loro esordio discografico era del 1992 ma io iniziai a conoscerli dopo (forse un anno dopo, forse due, non ricordo) quando – immancabilmente – nelle ‘discoteche rock’ dell’epoca veniva messo su ‘Killing in the name of’ e – quasi ritualmente – si concludeva con una festosa messe di dita medie alzate e ‘fuck you, i won’t do what you tell me’. A me sta roba piaceva assai ma nemmeno sapevo chi fossero (ma poi mi informai, chiaro). Intanto mi piacevano i Red Hot Chili Peppers (anche ‘Give it away’ rientrava nei rituali del venerdì sera) ma anche i Living Colour, i Faith No More e quella roba che si etichettava come cross-over (pur trattandosi spesso di cose molto diverse tra loro, sia per provenienza che per esiti sonori). Comunque – nel timore di arrivare di nuovo in ritardo – mi precipitai ad acquistare questo esordio degli Skunk Anansie (del 1995) – preceduto proprio da ‘Little Baby Swastika’ come singolo e – complessivamente – salutato da recensioni entusiastiche che vedevano nella band di Skin e soci i nuovi alfieri di quello che potremmo definire funk-metal con ampie dosi di impegno politico.

Diciamo subito che non facevano niente di particolarmente inaudito: la furia dei RATM era ben lontana, l’abilità compositiva dei migliori RHCP anche e del senso epico e al contempo distaccato dei Faith No More nemmeno l’ombra. Il paragone poteva starci coi Living Colour e – soprattutto, col senno di poi – col Lenny Kravitz meno voglioso di partecipare a sfilate di moda e più incline al rock dalle venature black. Niente di sbagliato insomma, ma era meglio forse capirsi in anticipo.

Specificato questo devo anche dire che il primo Skunk Anansie rimane ottimo e , in particolare, continua a piacermi molto questo pezzo che unisce un ‘tiro non indifferente’ con un chiara presa di posizione anti nazista e/o anti fascista: cosa questa di cui – purtroppo – si continua a sentire il bisogno come allora e più di allora (e – a ben guardare – certe derive iper-destrorse dell’oggi trovano forse proprio in quell’epoca un loro inizio – non era solo innocuo folklore allora come non lo è adesso). L’album comunque conteneva vari pezzi degni di nota (tipo: Selling Jesus, Intellectualise my blackness, Charity) senza, peraltro, particolari cadute di tono. A partire dal secondo album (Stoosh , dell’anno successivo) inizieranno un percorso molto più vicino al pop (e al mondo della moda e a quelle robe li – certo Skin ha il fisico, è brava e quel che volete ma certe cose – tipo fare la giudice nel x factor italiano – ce le saremmo anche risparmiate). In pratica: il paragone con Lenny Kravitz diventa certamente calzante anche se quest'ultimo rimane un modello difficile da raggiungere e, per quanto mi riguarda, l’effetto è circa lo stesso – robina gradevole da ascoltare ma non granchè rilevante. 

 

 USTMAMÒ – ONDE SULLE ONDE

 


 

 

Quando mi ci accosto io, gli Ustmamò (dal vicino appenino reggiano – tra Castelnuovo ne’ Monti e Villa Minozzo) sono già piuttosto noti: hanno partecipato ad un festivalbar (almeno in un’occasione ricordo di averli visti, perché si – in effetti – guardavo il festivalbar più o meno senza vergogna), hanno pubblicato 2 album (omonimi tutti e due) e si sono esibiti live come parte del consorzio produttori indipendenti facente capo agli ex cccp e attuali csi Ferretti e Zamboni (insieme ai Discplinatha e agli stessi c.s.i. hanno pubblicato il live ‘Maciste contro tutti’). E proprio ai cccp si deve forse guardare come influenza primaria per i loro primi album ma magari anche ai Mano Negra (quantomeno come attitudine). E comunque si – ammettiamolo – i primi due lp degli Ustmamò sono belli nel loro unire punk talora sbarazzino , folk locale e un po’ di varie altre cose in un insieme di ‘pesante leggerezza’ che può lasciare anche discretamente euforici. Sono belli , certo, ma a me di quelle cose – all’epoca – mi importava poco. Mi importava del rock in senso canonico oppure del rap o magari di strane mescolanze elettroniche che venivano perlopiù dalle terre d’Albione, cose di cui tutti si riempivano la bocca – temo – anche ben prima di averle ascoltate in maniera adeguata; cose di cui pareva arrivarmi più il sentore che non la sostanza. Ma era un momento eccitante in effetti – quando ti accosti a cose che non capisci bene ma che ti affascinano è sempre una bella cosa, per cui va bene, nel calderone ci si infila tutto: trip hop, jungle (il termine drum’n’bass non pareva ancora in uso), dub, big beat, ambient  - e che differenze ci siano tra l’una e l’altra cosa (ci sono e pure belle grosse) mica lo sapevo – ma non dubitavo che l’avrei capito prima o poi. Nel momento in cui giunge la notizia che anche gli Ustmamò avrebbero pubblicato il nuovo album fortemente influenzati da quelle sonorità (ma quali di preciso ? Essenzialmente il Bristol sound, verrebbe da dire) ecco che mi trovo a riconsiderarli. Quindi, con la produzione di Roberto Vernetti (ex Aereoplaniitaliani e produttore di punta del pop elettronico italiano di quegli anni: collaborò coi Casinò Royale, LaCrus, Frankie Hi-NRG ma ricordiamo che esordì come bassista degli Indigesti) ecco uscire – ad inizio 1996 – Ust. E iniziamo subito col dire che si tratta davvero di un buon lavoro, anzi potremmo spingerci a definirlo come uno degli atti fondanti di un pop italiano ‘al passo coi tempi’. Si alternano atmosfere eteree non distanti dai Massive Attack più statici (‘Cuore – Amore’ riuscitissimo pezzo d’apertura) con micro drammi traslucidi degni dei Portishead (‘Piano con l’affetto’, in cui l’interpretazione vocale di Mara Redeghieri tocca livelli davvero alti), in altri pezzi si procede con un’elettronica forse più tradizionale (post wave e/o cascami industrial che guardano alla techno – per dirla in modo proprio grezzo) ma assolutamente efficace (‘Canto del vuoto’ uno dei vertici dell’album, la drammatica ‘Onde sulle onde’, la simpatica ‘Indice di Borsa’). Altrove si creano canzoni decisamente pop e radiofoniche che funzionano parecchio bene ma forse non reggono granchè il tempo (‘Memobox’ , ‘Baby Dull’), in altre occasioni, ancora, il richiamo alle tradizioni è più presente (‘Biguldun’ niente di che e ‘Siamo i ribelli della montagna’ rilettura di un canto partigiano che era un loro pezzo forte live e che è sempre un piacere ascoltare). E dopo ?

Beh, non me lo spiego bene, ma per me gli Ustmamò sono tornati da dove erano venuti: hanno pubblicato almeno altri due album di pop elettronico di buona fattura (stando alle recensioni) ma io non li ho più presi in considerazione. Dopo lo scioglimento si sono anche riformati pubblicando ben due album definiti dalla critica folk rock (il primo dei quali addirittura in Inglese) , dimostrando perlomeno di continuare a non farsi problemi a cambiare genere (come sono questi dischi? Ovviamente non lo so). Mara Redeghieri (non più nella band) ha pubblicato un album da solista seguito dalla versione remix – mi è capitato di ascoltarlo e non è malaccio (ma se non lo trovate non disperatevi). 

 

 PASSENGERS – ELVIS ATE AMERICA

 


 

 Da non confondersi con un gruppo pop rock abbastanza recente, questi Passengers non sono altro che gli U2 in ‘formazione aperta’ cioè – in pratica – con l’aggiunta in pianta stabile di Brian Eno e la collaborazione di diversi altri musicisti. L’album – uscito nel tardo 1995 – si intitolava ‘Original Soundtracks vol.1’ (a cui – peraltro – non fece mai seguito un volume 2) e il titolo è già abbastanza esplicativo. Anche se poi non tutto si può semplicemente ricondurre ad un’attività di musica da film o sonorizzazione di video (dalle ambizioni più o meno arty). Almeno non lo si può dire per quello che forse è il pezzo più noto (e anche l’unica pop song in senso stretto) ossia quella ‘Miss Sarajevo’ che i nostri presentarono a Modena, durante l’evento Pavarotti & friends proprio nell’estate 1995 [tra parentesi: c’era la guerra nell’ex Jugoslavia – una guerra iniziata alcuni anni prima e che ci metterà ancora parecchio a finire: lo dico giusto come promemoria per tutti quelli che amano dire che prima dell’Ucraina ‘era dal 1945 che non c’era una guerra nel cuore dell’Europa']. Diciamo subito che ‘Miss Sarajevo’ sarebbe comunque (al di la delle buone cause) una canzone piuttosto bella, peccato per il contributo del Lucianone nazionale che tentava in tutti i modi di rovinarla, peraltro senza riuscirci del tutto. Ma all’epoca avevo questo conto in sospeso con gli U2 (come ho già spiegato) , per cui avevo deciso che mi piacevano, ma avevo anche deciso che – dopo ‘Zooropa’ – avrebbero dovuto fare qualcosa che proseguisse su quella linea ma che fosse – diciamo così – ancora più estremo. L’uscita di questo cd mi vide quindi entusiasta: Bono & co si ponevano sulla scia del mentore Brian Eno e se ne uscivano con qualcosa di sostanzialmente ambient – un po’ sulla falsariga di ‘Music for films’ (uscito nel 1978 – era però una colonna sonora ‘per film immaginari’ e poi io ne avevo sentito parlare ma non certo ascoltato) . A conti fatti va detto che ci troviamo di fronte a un progetto discontinuo , con alcune cose buone ma niente di veramente entusiasmante: troviamo l’estatica ‘Your blue room’ – parte della colonna sonora di ‘Al di la delle nuvole’ di Win Wenders e Michelangelo Antonioni che fa un po’ lo stesso effetto del film, cioè uno strano incrocio di ammirazione e sbadigli belli grossi (e più o meno dalle stesse parti stanno ‘Beach Sequence’ e ‘A different kind of blue’ – ambient certo ma di quella che scorre via senza infamia ne lode); troviamo poi l’adrenalinica ‘One minute warning’ facente parte della ost di ‘Ghost in the Shell’ (capolavoro anime del compianto Mamoru Oshii – tratto dal manga di Masamune Shirow) breve e poco significativa ma carina (e che mi ricorda un tantino la ‘We have explosive’ dei Future Sound of London – che però uscirà più di un anno dopo) ; ‘Elvis ate America’ è – che io sappia – la prima collaborazione con Howie B – non è grancosa ma ha questa atmosfera da ‘dark blues’ che anticipa parecchie tendenze a venire (anche se non viene dal nulla, chiaro) ed è un pezzo simpatico - proviene da un progetto di Jeff Koons del quale tutto ignoro. Il resto del disco non lo ricordo e – avendolo venduto a suo tempo – non ho nemmeno modo di riascoltarlo – e comunque non ne avrei voglia. 

 

 THE DOORS – END OF THE NIGHT



Ah, i classici. Se non conosci i classici poi non venire a rompere i coglioni. La musica di una volta era meglio, tempi così non torneranno mai. Ok, vi riconoscete ? Avete giusto fatto questo discorsino ad un sedicenne che sta ascoltando i suoi pezzi trap preferiti – per una volta senza auricolari ? Ah, come i Led Zeppelin (o altro nome, vedete voi) nessuno mai – dite – senza specificare che ai Led Zeppelin avete dato giusto un ascolto distratto 20 anni fa e vi ricordate quella canzone li...dai quella bella...quella del paradiso – minchia si, altro che trap.


Questo per dire che quella gente li c’è adesso, c’era una volta e (apocalisse permettendo) ci sarà ancora – ma mica vanno presi sul serio. Eppure l’ascolto dei classici un senso ce l’ha – e la cosa più bella è accostarvisi da ignoranti – non totali ma quasi: consapevoli del tempo passato ma – prima di ogni possibile contestualizzazione (che - credeteci o no - con la pratica viene da se) limitarsi ad usare le orecchie, ascoltare e farsi un’idea.


Per quanto riguarda me: da qualche parte dovevo partire. Avevo già ascoltato una poverissima compilation dedicata a gruppi anni ‘60 (poverissima solo nella confezione – chè c’erano dentro Jefferson Airplane, Byrds, Grateful Dead, 13th Floor Elevators, Count Five – roba che apprezzai all’istante ma ancora di più alcuni anni dopo). Nel frattempo però la mitizzazione dei Doors (dei Doors ? Di Jim Morrison, punto e basta) aveva toccato livelli imbarazzanti. Si perché il film di Oliver Stone del 1991 oggi mi pare una stronzata ma , al ‘ribelle’ (de stocazzo) quattordicenne di allora, fece ben altro effetto, senza contare quel breve libretto illustrato dal grande (grande in altri casi, qui non tanto – intendiamoci) Roberto Baldazzini: si trattava di una sorta di ‘biografia sentimentale’ di Morrison scritta da quel Pino Cacucci che in certi casi non era neanche male (ma questa se la poteva evitare). Senza contare milioni di frasi attribuite al re lucertola – vere o apocrife che fossero – scritte su vagonate di diari, muri, magliette ed esibite di norma da tipi assai fighi e dalle loro fidanzatine (gente che – se vi concentrate – oggi non faticherete ad immaginare ad un concerto di Vasco). Ora, su queste frasi andrebbe aperto un capitolo a parte; io non saprei giudicare quali il vate Jim scrisse davvero o effettivamente pronunciò (questo perché – anche sul web – la fonte non viene quasi mai citata: canzone, poesia, intervista che fosse) ma – diciamocelo una buona volta – il tempo non è stato generoso con tali enunciazioni: la maggior parte di esse risulta di tale e tanta banalità da farmi vergognare per il solo fatto di averle lette e penso che nemmeno un ipotetico incrocio tra Vasco, Gramellini e Fabio Volo riuscirebbe oggi a prendere sul serio quelle cose li (ma erano davvero altri tempi – e in questo caso una contestualizzazione è necessaria sul serio).


Ma poi prendi in mano il disco (all’epoca preso in cd – in offerta speciale): è l’esordio omonimo del 1967. E capisci perché i classici vanno ascoltati e perché gli artisti si giudicano dalla loro arte e non dalla loro vita (che può essere più o meno bella/dannata brutta/noiosa  - ma poi davvero io che ne so? Cioè, li conosco? Li ho mai conosciuti? Li conoscerò mai? - le loro opere però quelle si che posso conoscerle e non vedo davvero perché dovrebbe servirmi altro). I Doors riescono subito a colpire con un pezzo tuttora famosissimo ‘Break on through (to the other side)’ ed emergono come immediati segni di riconoscimento l’organo di Ray Manzarek e (qui si che bisogna parlarne bene) la voce e la presenza carismatica di Jim Morrison. Poi si prosegue con pezzi molto famosi tipo ‘Alabama Song’, la mitologica ‘Light my Fire’ (che - se la sfrondiamo da quanto può aver rotto il cazzo rimane un gran bel sentire), la cupissima ‘The End’ posta (ovviamente) in chiusura, psichedelico flusso di coscienza e tipica jam blues free form che chiudeva e chiuderà tanti vinili di allora – senza smettere mai di risultare inquietante e – per vie traverse – liberatorie. Ma anche tutto il resto del disco, davvero, conosce ben poche cadute di tono, tanto che, dovendo scegliere un solo pezzo, mi concentrai sulla darkeggiante ‘End of the night’.

Anni dopo comprai anche il secondo album (‘Strange Days’ sempre del 1967) trovandolo quasi di pari livello con questo (e non privo di una trasversale influenza su un po’ della new wave che arriverà dieci o più anni dopo). Tutto il resto ce l'ho archiviato in forma di file e – mi dico – lo ascolterò prima o poi – album per album, canzone per canzone – come deve essere fatto.



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