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martedì 21 giugno 2022

Dagli Archivi

 RITMO TRIBALE - 2 MILIONI 


Nel panorama – molto più variegato e interessante di quel che si potrebbe pensare – dell’ indie rock made in italy (che poi fosse cantato in italiano o meno importa poco – anche perché molte band hanno sperimentato più soluzioni in tal senso) i Ritmo Tribale rappresentano certamente uno dei nomi più rappresentativi. Da più parti si possono trovare paragoni con la scena grunge della quale loro furono contemporanei e – in effetti – le commistioni di generi di cui a Seattle furono specialisti sono un po’ quelle che la band milanese andava praticando già dai tardi anni ‘80 suonando in giro per l’Italia (con un particolare legame col centro sociale Leoncavallo). Ma – in fondo – era una cosa abbastanza naturale  per un gruppo dell’epoca (ricordiamo che il loro primo album ‘maturo’ – Kriminale – è del 1990) miscelare un background schiettamente punk-hc per così dire ‘evoluto’ con rivalutazioni di tutto quel che fu l’armamentario hard rock e metal anni ‘70. E – in qualche modo (pur venendo da lidi certamente più new wave) era quello che fecero i Litfiba di ‘El Diablo’ - con un risultato assai scarso come esito artistico ma decisamente baciato dalla fortuna sotto quello commerciale. 1

L’uscita di ‘Mantra’ nel 1994 è in realtà la mia scoperta dei Ritmo Tribale – grazie ai soliti video che passavano su Video Music nelle mie scorpacciate musicali , quelle volte che si riusciva a vedere. Non ricordo i pezzi in questione (anche perché poi ‘Mantra’ non l’ho mai ascoltato per intero) ma so che colpirono la mia fantasia, unendo (ricostruisco a posteriori) indolenze psichedeliche estive con atmosfere decisamente più sferzanti e derivate per esempio dai Soundgarden (che nel 1994 conquistarono popolarità anche da queste parti – ma erano già noti da anni) o magari anche dai Kyuss. In pratica io cercavo i Pearl Jam o gli Alice in Chains italiani (o gli Stone Temple Pilots  – ma questi ultimi mi sono sempre stati sui coglioni senza un vero perché) e questi sfattoni (termine che all’epoca si usava) potevano rientrare nella definizione.

Nel 1995 usciva ‘Psycorsonica’ e così usai parte dei soldi che un mi fruttò all’epoca un lavoretto di volantinaggio (più faticoso di quel che si poteva pensare, non molto retribuito e rigorosamente in nero – per la gioia dei patrioti di ieri e di oggi) per acquistare il cd. Devo dire che la prima impressione non fu particolarmente positiva, anzi conclusi presto che non mi piaceva. In parte colpa della voce di Edda (Stefano Rampoldi) davvero troppo strana per il me stesso dell’epoca (e lo dico oggi che ho comprato tutte le sue uscite da solista – apprezzandole parecchio) , in parte forse per una tendenza generalizzata ad atmosfere lisergiche e pochi svolazzi hard. E – cosa parecchio importante per l’epoca, dato che noi tutti teenager d'allora eravamo cresciuti col mito dei ‘contenuti’ – testi che procedevano per associazioni di idee ma forse non volevano dire niente (niente di chiaro, perlomeno). Ma poi le cose finirono per cambiare (e questo è un grande merito del tempo in cui la musica si pagava: ormai che avevi sborsato, al disco in questione dovevi concedere qualche possibilità di farti ricredere). Ci fu un periodo in cui li ascoltavo davvero spesso finendo per preferirli a tante altre cose e – per qualche assurda ragione – li immagino come ottima colonna sonora per qualche post-apocalittico all’italiana (fate conto ‘Fuga dal Bronx’ ma immaginatelo girato molto peggio). Questo fu comunque l’ultimo album con la formazione al completo, Edda uscì dal gruppo per inseguire le sue ossessioni (e rimanendo in silenzio fino al 2009, anno in cui uscì il suo ottimo esordio solista ‘Semper Biot’) e gli altri proseguirono comunque anche se in modo sporadico (pubblicando, in pratica, due album: uno nel 1999 e uno nel 2020 – al momento non li ho ascoltati e il secondo ignoravo addirittura che esistesse almeno fino a poco fa).

1Sto dicendo – in soldoni – che ‘El Diablo’ è un disco grunge? Non in senso stretto, certo – però in qualche modo e nei limiti della scena italiana si potrebbe anche pensarlo. 

 

 SKUNK ANANSIE – LITTLE BABY SWASTIKA 

 


 

Un rimpianto della mia attività di ascoltatore musicale imberbe è stato certamente quello di essere arrivato in deciso ritardo – rispetto all’uscita – all’ascolto e all’apprezzamento dei Rage Against the Machine: il loro esordio discografico era del 1992 ma io iniziai a conoscerli dopo (forse un anno dopo, forse due, non ricordo) quando – immancabilmente – nelle ‘discoteche rock’ dell’epoca veniva messo su ‘Killing in the name of’ e – quasi ritualmente – si concludeva con una festosa messe di dita medie alzate e ‘fuck you, i won’t do what you tell me’. A me sta roba piaceva assai ma nemmeno sapevo chi fossero (ma poi mi informai, chiaro). Intanto mi piacevano i Red Hot Chili Peppers (anche ‘Give it away’ rientrava nei rituali del venerdì sera) ma anche i Living Colour, i Faith No More e quella roba che si etichettava come cross-over (pur trattandosi spesso di cose molto diverse tra loro, sia per provenienza che per esiti sonori). Comunque – nel timore di arrivare di nuovo in ritardo – mi precipitai ad acquistare questo esordio degli Skunk Anansie (del 1995) – preceduto proprio da ‘Little Baby Swastika’ come singolo e – complessivamente – salutato da recensioni entusiastiche che vedevano nella band di Skin e soci i nuovi alfieri di quello che potremmo definire funk-metal con ampie dosi di impegno politico.

Diciamo subito che non facevano niente di particolarmente inaudito: la furia dei RATM era ben lontana, l’abilità compositiva dei migliori RHCP anche e del senso epico e al contempo distaccato dei Faith No More nemmeno l’ombra. Il paragone poteva starci coi Living Colour e – soprattutto, col senno di poi – col Lenny Kravitz meno voglioso di partecipare a sfilate di moda e più incline al rock dalle venature black. Niente di sbagliato insomma, ma era meglio forse capirsi in anticipo.

Specificato questo devo anche dire che il primo Skunk Anansie rimane ottimo e , in particolare, continua a piacermi molto questo pezzo che unisce un ‘tiro non indifferente’ con un chiara presa di posizione anti nazista e/o anti fascista: cosa questa di cui – purtroppo – si continua a sentire il bisogno come allora e più di allora (e – a ben guardare – certe derive iper-destrorse dell’oggi trovano forse proprio in quell’epoca un loro inizio – non era solo innocuo folklore allora come non lo è adesso). L’album comunque conteneva vari pezzi degni di nota (tipo: Selling Jesus, Intellectualise my blackness, Charity) senza, peraltro, particolari cadute di tono. A partire dal secondo album (Stoosh , dell’anno successivo) inizieranno un percorso molto più vicino al pop (e al mondo della moda e a quelle robe li – certo Skin ha il fisico, è brava e quel che volete ma certe cose – tipo fare la giudice nel x factor italiano – ce le saremmo anche risparmiate). In pratica: il paragone con Lenny Kravitz diventa certamente calzante anche se quest'ultimo rimane un modello difficile da raggiungere e, per quanto mi riguarda, l’effetto è circa lo stesso – robina gradevole da ascoltare ma non granchè rilevante. 

 

 USTMAMÒ – ONDE SULLE ONDE

 


 

 

Quando mi ci accosto io, gli Ustmamò (dal vicino appenino reggiano – tra Castelnuovo ne’ Monti e Villa Minozzo) sono già piuttosto noti: hanno partecipato ad un festivalbar (almeno in un’occasione ricordo di averli visti, perché si – in effetti – guardavo il festivalbar più o meno senza vergogna), hanno pubblicato 2 album (omonimi tutti e due) e si sono esibiti live come parte del consorzio produttori indipendenti facente capo agli ex cccp e attuali csi Ferretti e Zamboni (insieme ai Discplinatha e agli stessi c.s.i. hanno pubblicato il live ‘Maciste contro tutti’). E proprio ai cccp si deve forse guardare come influenza primaria per i loro primi album ma magari anche ai Mano Negra (quantomeno come attitudine). E comunque si – ammettiamolo – i primi due lp degli Ustmamò sono belli nel loro unire punk talora sbarazzino , folk locale e un po’ di varie altre cose in un insieme di ‘pesante leggerezza’ che può lasciare anche discretamente euforici. Sono belli , certo, ma a me di quelle cose – all’epoca – mi importava poco. Mi importava del rock in senso canonico oppure del rap o magari di strane mescolanze elettroniche che venivano perlopiù dalle terre d’Albione, cose di cui tutti si riempivano la bocca – temo – anche ben prima di averle ascoltate in maniera adeguata; cose di cui pareva arrivarmi più il sentore che non la sostanza. Ma era un momento eccitante in effetti – quando ti accosti a cose che non capisci bene ma che ti affascinano è sempre una bella cosa, per cui va bene, nel calderone ci si infila tutto: trip hop, jungle (il termine drum’n’bass non pareva ancora in uso), dub, big beat, ambient  - e che differenze ci siano tra l’una e l’altra cosa (ci sono e pure belle grosse) mica lo sapevo – ma non dubitavo che l’avrei capito prima o poi. Nel momento in cui giunge la notizia che anche gli Ustmamò avrebbero pubblicato il nuovo album fortemente influenzati da quelle sonorità (ma quali di preciso ? Essenzialmente il Bristol sound, verrebbe da dire) ecco che mi trovo a riconsiderarli. Quindi, con la produzione di Roberto Vernetti (ex Aereoplaniitaliani e produttore di punta del pop elettronico italiano di quegli anni: collaborò coi Casinò Royale, LaCrus, Frankie Hi-NRG ma ricordiamo che esordì come bassista degli Indigesti) ecco uscire – ad inizio 1996 – Ust. E iniziamo subito col dire che si tratta davvero di un buon lavoro, anzi potremmo spingerci a definirlo come uno degli atti fondanti di un pop italiano ‘al passo coi tempi’. Si alternano atmosfere eteree non distanti dai Massive Attack più statici (‘Cuore – Amore’ riuscitissimo pezzo d’apertura) con micro drammi traslucidi degni dei Portishead (‘Piano con l’affetto’, in cui l’interpretazione vocale di Mara Redeghieri tocca livelli davvero alti), in altri pezzi si procede con un’elettronica forse più tradizionale (post wave e/o cascami industrial che guardano alla techno – per dirla in modo proprio grezzo) ma assolutamente efficace (‘Canto del vuoto’ uno dei vertici dell’album, la drammatica ‘Onde sulle onde’, la simpatica ‘Indice di Borsa’). Altrove si creano canzoni decisamente pop e radiofoniche che funzionano parecchio bene ma forse non reggono granchè il tempo (‘Memobox’ , ‘Baby Dull’), in altre occasioni, ancora, il richiamo alle tradizioni è più presente (‘Biguldun’ niente di che e ‘Siamo i ribelli della montagna’ rilettura di un canto partigiano che era un loro pezzo forte live e che è sempre un piacere ascoltare). E dopo ?

Beh, non me lo spiego bene, ma per me gli Ustmamò sono tornati da dove erano venuti: hanno pubblicato almeno altri due album di pop elettronico di buona fattura (stando alle recensioni) ma io non li ho più presi in considerazione. Dopo lo scioglimento si sono anche riformati pubblicando ben due album definiti dalla critica folk rock (il primo dei quali addirittura in Inglese) , dimostrando perlomeno di continuare a non farsi problemi a cambiare genere (come sono questi dischi? Ovviamente non lo so). Mara Redeghieri (non più nella band) ha pubblicato un album da solista seguito dalla versione remix – mi è capitato di ascoltarlo e non è malaccio (ma se non lo trovate non disperatevi). 

 

 PASSENGERS – ELVIS ATE AMERICA

 


 

 Da non confondersi con un gruppo pop rock abbastanza recente, questi Passengers non sono altro che gli U2 in ‘formazione aperta’ cioè – in pratica – con l’aggiunta in pianta stabile di Brian Eno e la collaborazione di diversi altri musicisti. L’album – uscito nel tardo 1995 – si intitolava ‘Original Soundtracks vol.1’ (a cui – peraltro – non fece mai seguito un volume 2) e il titolo è già abbastanza esplicativo. Anche se poi non tutto si può semplicemente ricondurre ad un’attività di musica da film o sonorizzazione di video (dalle ambizioni più o meno arty). Almeno non lo si può dire per quello che forse è il pezzo più noto (e anche l’unica pop song in senso stretto) ossia quella ‘Miss Sarajevo’ che i nostri presentarono a Modena, durante l’evento Pavarotti & friends proprio nell’estate 1995 [tra parentesi: c’era la guerra nell’ex Jugoslavia – una guerra iniziata alcuni anni prima e che ci metterà ancora parecchio a finire: lo dico giusto come promemoria per tutti quelli che amano dire che prima dell’Ucraina ‘era dal 1945 che non c’era una guerra nel cuore dell’Europa']. Diciamo subito che ‘Miss Sarajevo’ sarebbe comunque (al di la delle buone cause) una canzone piuttosto bella, peccato per il contributo del Lucianone nazionale che tentava in tutti i modi di rovinarla, peraltro senza riuscirci del tutto. Ma all’epoca avevo questo conto in sospeso con gli U2 (come ho già spiegato) , per cui avevo deciso che mi piacevano, ma avevo anche deciso che – dopo ‘Zooropa’ – avrebbero dovuto fare qualcosa che proseguisse su quella linea ma che fosse – diciamo così – ancora più estremo. L’uscita di questo cd mi vide quindi entusiasta: Bono & co si ponevano sulla scia del mentore Brian Eno e se ne uscivano con qualcosa di sostanzialmente ambient – un po’ sulla falsariga di ‘Music for films’ (uscito nel 1978 – era però una colonna sonora ‘per film immaginari’ e poi io ne avevo sentito parlare ma non certo ascoltato) . A conti fatti va detto che ci troviamo di fronte a un progetto discontinuo , con alcune cose buone ma niente di veramente entusiasmante: troviamo l’estatica ‘Your blue room’ – parte della colonna sonora di ‘Al di la delle nuvole’ di Win Wenders e Michelangelo Antonioni che fa un po’ lo stesso effetto del film, cioè uno strano incrocio di ammirazione e sbadigli belli grossi (e più o meno dalle stesse parti stanno ‘Beach Sequence’ e ‘A different kind of blue’ – ambient certo ma di quella che scorre via senza infamia ne lode); troviamo poi l’adrenalinica ‘One minute warning’ facente parte della ost di ‘Ghost in the Shell’ (capolavoro anime del compianto Mamoru Oshii – tratto dal manga di Masamune Shirow) breve e poco significativa ma carina (e che mi ricorda un tantino la ‘We have explosive’ dei Future Sound of London – che però uscirà più di un anno dopo) ; ‘Elvis ate America’ è – che io sappia – la prima collaborazione con Howie B – non è grancosa ma ha questa atmosfera da ‘dark blues’ che anticipa parecchie tendenze a venire (anche se non viene dal nulla, chiaro) ed è un pezzo simpatico - proviene da un progetto di Jeff Koons del quale tutto ignoro. Il resto del disco non lo ricordo e – avendolo venduto a suo tempo – non ho nemmeno modo di riascoltarlo – e comunque non ne avrei voglia. 

 

 THE DOORS – END OF THE NIGHT



Ah, i classici. Se non conosci i classici poi non venire a rompere i coglioni. La musica di una volta era meglio, tempi così non torneranno mai. Ok, vi riconoscete ? Avete giusto fatto questo discorsino ad un sedicenne che sta ascoltando i suoi pezzi trap preferiti – per una volta senza auricolari ? Ah, come i Led Zeppelin (o altro nome, vedete voi) nessuno mai – dite – senza specificare che ai Led Zeppelin avete dato giusto un ascolto distratto 20 anni fa e vi ricordate quella canzone li...dai quella bella...quella del paradiso – minchia si, altro che trap.


Questo per dire che quella gente li c’è adesso, c’era una volta e (apocalisse permettendo) ci sarà ancora – ma mica vanno presi sul serio. Eppure l’ascolto dei classici un senso ce l’ha – e la cosa più bella è accostarvisi da ignoranti – non totali ma quasi: consapevoli del tempo passato ma – prima di ogni possibile contestualizzazione (che - credeteci o no - con la pratica viene da se) limitarsi ad usare le orecchie, ascoltare e farsi un’idea.


Per quanto riguarda me: da qualche parte dovevo partire. Avevo già ascoltato una poverissima compilation dedicata a gruppi anni ‘60 (poverissima solo nella confezione – chè c’erano dentro Jefferson Airplane, Byrds, Grateful Dead, 13th Floor Elevators, Count Five – roba che apprezzai all’istante ma ancora di più alcuni anni dopo). Nel frattempo però la mitizzazione dei Doors (dei Doors ? Di Jim Morrison, punto e basta) aveva toccato livelli imbarazzanti. Si perché il film di Oliver Stone del 1991 oggi mi pare una stronzata ma , al ‘ribelle’ (de stocazzo) quattordicenne di allora, fece ben altro effetto, senza contare quel breve libretto illustrato dal grande (grande in altri casi, qui non tanto – intendiamoci) Roberto Baldazzini: si trattava di una sorta di ‘biografia sentimentale’ di Morrison scritta da quel Pino Cacucci che in certi casi non era neanche male (ma questa se la poteva evitare). Senza contare milioni di frasi attribuite al re lucertola – vere o apocrife che fossero – scritte su vagonate di diari, muri, magliette ed esibite di norma da tipi assai fighi e dalle loro fidanzatine (gente che – se vi concentrate – oggi non faticherete ad immaginare ad un concerto di Vasco). Ora, su queste frasi andrebbe aperto un capitolo a parte; io non saprei giudicare quali il vate Jim scrisse davvero o effettivamente pronunciò (questo perché – anche sul web – la fonte non viene quasi mai citata: canzone, poesia, intervista che fosse) ma – diciamocelo una buona volta – il tempo non è stato generoso con tali enunciazioni: la maggior parte di esse risulta di tale e tanta banalità da farmi vergognare per il solo fatto di averle lette e penso che nemmeno un ipotetico incrocio tra Vasco, Gramellini e Fabio Volo riuscirebbe oggi a prendere sul serio quelle cose li (ma erano davvero altri tempi – e in questo caso una contestualizzazione è necessaria sul serio).


Ma poi prendi in mano il disco (all’epoca preso in cd – in offerta speciale): è l’esordio omonimo del 1967. E capisci perché i classici vanno ascoltati e perché gli artisti si giudicano dalla loro arte e non dalla loro vita (che può essere più o meno bella/dannata brutta/noiosa  - ma poi davvero io che ne so? Cioè, li conosco? Li ho mai conosciuti? Li conoscerò mai? - le loro opere però quelle si che posso conoscerle e non vedo davvero perché dovrebbe servirmi altro). I Doors riescono subito a colpire con un pezzo tuttora famosissimo ‘Break on through (to the other side)’ ed emergono come immediati segni di riconoscimento l’organo di Ray Manzarek e (qui si che bisogna parlarne bene) la voce e la presenza carismatica di Jim Morrison. Poi si prosegue con pezzi molto famosi tipo ‘Alabama Song’, la mitologica ‘Light my Fire’ (che - se la sfrondiamo da quanto può aver rotto il cazzo rimane un gran bel sentire), la cupissima ‘The End’ posta (ovviamente) in chiusura, psichedelico flusso di coscienza e tipica jam blues free form che chiudeva e chiuderà tanti vinili di allora – senza smettere mai di risultare inquietante e – per vie traverse – liberatorie. Ma anche tutto il resto del disco, davvero, conosce ben poche cadute di tono, tanto che, dovendo scegliere un solo pezzo, mi concentrai sulla darkeggiante ‘End of the night’.

Anni dopo comprai anche il secondo album (‘Strange Days’ sempre del 1967) trovandolo quasi di pari livello con questo (e non privo di una trasversale influenza su un po’ della new wave che arriverà dieci o più anni dopo). Tutto il resto ce l'ho archiviato in forma di file e – mi dico – lo ascolterò prima o poi – album per album, canzone per canzone – come deve essere fatto.



martedì 17 maggio 2022

Dagli Archivi

DAVID BOWIE - HALLO SPACEBOY 

  

Outside (il cui titolo esatto sarebbe ‘1.Outside’) è stato il primo album di David Bowie che ho acquistato. Praticamente subito dopo l’uscita (autunno 1995). Il fatto è che Bowie è da sempre al vertice delle mie preferenze e questo album si presentava come un qualcosa di imperdibile. Era un concept basato sulla figura di Nathan Adler – detective della sezione crimini artistici – che si trova ad indagare sull’omicidio di tale Baby Grace e – nel corso delle indagini – si imbatte in personaggi parecchio bizzarri. In pratica: un disco prodotto da Brian Eno (come la trilogia berlinese: da me non ancora ascoltata per intero ma già ampiamente mitizzata) che rimandava nei temi trattati a quelle cose che tanto mi piacciono, un po’ di William Burroughs, un po’ di Philip K. Dick, David Lynch, magari Grant Morrison e tanti altri.

In realtà l’ascolto non mi conquistò immediatamente perché - in effetti – il discorso è più complesso di quanto appare e tutto il sottostante – sia musicale che narrativo – è cosa molto sentita e che non si esaurisce in modo superficiale. Alla perplessità iniziale si sostituì col tempo un piacere autentico ma anche la delusione perché non venne mai presentato l’agognato seguito dell’album (avrebbe dovuto essere la prima parte di una trilogia). La critica – all’uscita – incensò davvero Outside, qualcuno si spinse a parlare di capolavoro ma – già negli anni successivi – questa visione si stemperò molto e l’album viene perlopiù (salvo eccezioni, chiaro) dipinto come una cosa non completamente riuscita. Io lo considero, invece, un capolavoro autentico nonché la cosa migliore di Bowie di tutti gli anni ‘90 (altri capolavori vennero – ma più avanti). La canzone che propongo è tra le più immediate e martellanti e devo dire che mi piace ancora tanto (in rete potrete trovarne anche una versione realizzata coi Pet Shop Boys). Altri pezzi notevoli: ‘The Motel’; la title track, I’m Deranged, Strangers when we Meet'. 

 

NEGRITA – PARADISI PER ILLUSI  

 


 

Per qualche strano motivo volevo che mi piacessero i Negrita. Cioè: avevo anche provato ad ascoltare Ligabue e i Litfiba ma proprio non li digerivo. Gli aretini mi sembravano un buon compromesso: rock italiano che puntava al mainstream ma senza svaccare troppo e con buona proprietà sonora. Nel 1994 avevano pubblicato un buon esordio (che non era certo un capolavoro, in effetti – ma occorre valutarlo nel contesto) e nel 1995 se ne escono con un ep di 6 pezzi ‘Paradisi per illusi’. Lo compro e dopo pochi ascolti me ne pento. Si ok, sempre meglio di quella minchiatona incagabile che fu ‘Buon compleanno Elvis’ del Liga nazionale (uscito grossomodo nello stesso periodo – me lo passarono e fu comunque un successo enorme) ma sentivo che la mia strada non passava di li. Oggi sono più accondiscendente e devo ammettere che – in alcuni pezzi almeno – non erano davvero male. Due anni dopo uscì XXX e giustamente viene ricordato come quella ciofeca che era (con versi memorabili quali ‘fare sesso nascosti nel cesso, fumarsi una Marlboro dopo l’amplesso) ma forse ha aiutato la band a trovare una sua dimensione mantenendo un impianto classicamente rock blues che andasse a flirtare col pop di tutto il mondo (senza scimiottamenti grunge, che nelle prime cose erano certo presenti – ma erano i tempi). Per cui concludo dicendo che oggi – a tanto tempo di distanza – non comprerei un disco dei Negrita e non andrei ad un loro concerto (salvo che sia gratis e vicino a casa) ma se passano in radio non mi dispiace. 

 

 

SMASHING PUMPKINS – GALAPAGOS 

 


 

 

‘Mellon Collie and the Infinite Sadness’ usciva nel 1995 e davvero non so se considerarlo la colonna sonora di un periodo parecchio triste (tristezza infinita non saprei, abbastanza grossa comunque) o come una sorta di medicina per reagire al tedio esistenziale. Ma in realtà è – chiaramente – tutte e due le cose. La band di Billy Corgan non mi era completamente nuova e d’altronde quello che forse è il loro capolavoro (Siamese Dream) usciva due anni prima e qualcosa avevo avuto modo di sentire. Ma sinceramente mi ero quasi dimenticato che esistessero fino all’uscita di questo ambizioso doppio album e della pletora di recensioni entusiastiche che lo accompagnarono. Recensioni che spesso mettevano in risalto certe influenze che parevano richiamarsi al prog anni ‘70 che – si ammettiamolo – veniva visto come cosa brutta brutta ma che Corgan e soci riuscivano a nobilitare e trascendere. In realtà – almeno per me – le influenze prog non sono poi così presenti (anche se poi non ci sarebbe niente di male, in verità e col senno di poi) e siamo comunque in presenza di un album grunge a tutti gli effetti – certo le atmosfere a volte si dilatano ma l’ispirazione sembra venire molto più dalla new wave e financo dallo shoegazing che non da altro. O forse dal glam di Todd Rundgreen, Roxy Music o David Bowie – ma poi poco importa. ‘Galapagos’ rimane per me un gran pezzo – non il più noto ne il più rappresentativo dell’album e nemmeno il più bello. Diciamo che – all’epoca – contribuì a spostare il baricentro dei miei ascolti ma – ovviamente – me ne rendo conto solo ora. Dopo Mellon Collie gli S.P. hanno pubblicato diversi altri album (l’ultimo è del 2020) – alcuni anche belli – ma non hanno più avuto ne mai più avranno il rilievo che avevano in quegli anni grigi. 

 

 

BLACK GRAPE – TRAMAZI PARTI 

 


 

Il Brit Pop era – all’epoca – una delle mie passioni. Ma era, in effetti, una passione piuttosto fresca; come dire: mancava delle basi. A meno che per basi non si intendesse una percezione mitizzata della swinging London degli anni ‘60. Tutta la scena indie-dance madchesteriana me la ero praticamente persa, i Primal Scream li avevo conosciuti solo nella loro veste passatista (apprezzabile in verità – ma non significativa come l’altra), conoscevo gli Suede ma non riuscivo ,in effetti, a contestualizzarli. Però – per questioni di sfumature poco calcolabili – mi piacevano gli Happy Mondays e gli Stone Roses: mi piacevano senza quasi averli mai sentiti, intendiamoci. Cioè forse qualche pezzo si – poco roba, magari del tutto a caso, in ora tarda su Video Music (che a casa mia raramente si prendeva – e allora quelle pochissime volte che funzionava a dovere ne guardavo delle ore in fila – alla lunga mi stancavo anche – per fortuna Red Ronnie me lo sono sempre schivato però). Così, quando esce questo esordio dei Black Grape (autunno 1995), apprendo che ci sono dentro degli ex Happy Mondays (Shaun Ryder, cantante e un po’ il motore del tutto ma anche Bez, suonatore di maracas e dedito – oserei dire – al cazzeggio). Lo compro unicamente perché – pochi giorni dopo aver letto un’entusiastica recensione – me lo trovo davanti paro paro in un negozio di dischi (per nulla ‘alternativo’). Il faccione giallastro in copertina sembra dirmi ‘comprami testa di cazzo, se non lo fai tu nessuno lo farà’ (e – almeno nel contesto di quel negozio e forse del paese tutto è certamente vero). Comunque sia, lo acquisto e poi lo ascolto: ci sono, rispetto agli Happy Mondays, come dire ‘affinità e divergenze’ ma in realtà questo verrò a capirlo solo dopo. Comunque è un disco che potremmo definire semplicemente come funk e con un’attitudine cazzona che si sente bene. Sulle prime ho qualche perplessità ma poi inizia a piacermi e anche molto. Preferisco forse i pezzi meno noti – magari la scelta dei primi due singoli non è così azzeccata – ma poi che importa. Col tempo realizzano altri 2 dischi (uno nel 1997 e uno nel 2017) e – sempre col tempo – anche gli Happy Mondays torneranno. Certo i giorni di Madchester non torneranno invece più – e io ho tutti i diritti di essere nostalgico proprio perché mi trovavo da tutt’altra parte. 

 

 

U2 – HOLD ME, THRILL ME, KISS ME, KILL ME 

 


 

 

Ok – fuori da ogni discorso sulla soggettività dei gusti – questa è un tantino imbarazzante. Vediamo di capirci: mi piacevano gli U2 e mi piaceva Batman. Gli U2 venivano da una serie di dischi notevoli e – solo due anni prima – avevano sfornato quello che per me rimane la loro cosa migliore ossia ‘Zooropa’ (i fan di Bono & co non sono assolutamente d’accordo – ma - come non mi stanco di ripetere – è gente che tendenzialmente non capisce un cazzo). Inoltre avevo bisogno di una band da – per così dire – idolatrare. Cioè, cazzo, ce l’avevano tutti una band da idolatrare: i Pink Floyd magari (ma era giusto uscito ‘The division Bell – porca troia che disco di merda, non scherziamo), gli Iron Maiden forse (non ero abbastanza metallaro), i Queen (ma dopo la morte di Freddie Mercury sembrava piacessero a tutti: io non li gradivo più di tanto e comunque non ero necrofilo) – certo c’erano i Nirvana (ma il fucile di Kurt sembrava ancora caldo e io ancora necessitavo di rassicurazioni). Così – per farla breve – decisi che mi piacevano gli U2 anche quando pubblicavano schifezzuole come questa – lo decisi e ci credetti fermamente almeno per alcune settimane. Il film ‘Batman Forever’ (col cavaliere oscuro interpretato di Val Kilmer e diretto da Joel Schumacher) non l’ho mai visto ma tutti lo descrivono come una schifezza (o una simpatica schifezza – i più generosi). Comunque – ad oggi – il miglior film su Batman per me è quello uscito alcuni mesi fa, diretto da Matt Reeves (lo preferisco anche alla trilogia di Nolan). E – sempre saltando di palo in frasca – ricordo che anche Prince si scornò ai tempi del Batman di Tim Burton – realizzando una sua ‘Bat dance’ di enorme successo commerciale ma che possiamo ben ricordare come una minchiatella imbarazzante. Comunque – tornando al mio rapporto con gli U2 – attesi con fiducia l’uscita di ‘Pop’ – annunciato come il loro album ‘elettronico’ e va detto che, anche se le aspettative furono in larga parte deluse da un prodotto molto più attento a piacere alle masse che non ad altro, qualcosa li dentro ancora si salvava. Da li in avanti però non li ho più seguiti – ho provato ancora ad ascoltarli ma li ho trovati irrilevanti e - a tratti – sinceramente vacui. Non mi servono punti di riferimento. Ho tanti musicisti che amo alla follia ma non saprei sceglierne uno solo. Non sono fan di qualcuno in particolare e di un autografo non saprei cosa farmene. [Ma mi perdono].

 

lunedì 16 maggio 2022

Dagli Archivi - Introduzione

 

Dagli archivi


Posso fornire due versioni su cosa sia questa ennesima proposta di canzoni e video senza apparente capo né apparente coda. Premetto comunque che non ha intenzione di sostituire altre iniziative ma è solo un’aggiunta. O forse un tentativo di guardarsi alle spalle: cercando di sciogliere il dubbio atroce se sia passato qualche secolo o pochi secondi.


Versione 1

A partire dagli anni ‘90 – cioè da quella che potrei definire la mia adolescenza e post adolescenza (ma preferirei usare il termine onnicomprensivo ‘pre–post adolescenza’: che di certe cose è difficile soprattutto coglierne il ‘durante’) – ho cominciato ad acquistare album musicali con un certo metodo. Si trattava – all’inizio – esclusivamente di compact discs: all’epoca andava quello e il vinile pareva relegato ai nostalgici e ai dj e inoltre io il giradischi non l’avevo (lo comprai poi – ma eravamo già in pieni anni 0 – direi di averlo pagato in euro). Siccome i cd non è che costassero poco, mi rompeva assai pagare per un qualcosa che poi non mi piaceva – e però mi rompeva anche l’acquisto ‘a colpo sicuro’:  avevo necessità di sperimentare ed ero conscio che la piena comprensione di un oggetto musicale era uno di quei frutti da lasciar maturare con la dovuta calma. Altrimenti avrei potuto fare la fine di quelli che compravano solo dischi dei Pink Floyd o degli Ac-Dc o di chi minchia volete voi. Mi imposi pertanto una regola (che seguo tuttora – tra varie difficoltà) ossia quella ‘dei tre ascolti’. Nella pratica si traduce nel fatto che una qualsiasi emissione sonora che mi passa per le mani (intenso: volontariamente) devo ascoltarla per almeno 3 volte: ascolti attenti, con tutta calma, nella posizione più gradita al momento ma sempre con l’attenzione rivolta alla musica. Dopodiché posso anche proseguire per mille volte o tenendo il disco in sottofondo mentre faccio altro (tipo depilarmi lo scroto) – ma è facoltativo. Al termine dei 3 ascolti scelgo un pezzo che va a far parte dei miei archivi, sorta di diario sonoro dei miei ascolti e un po’ (ma solo un po’ – chè non bisogna esagerare) anche della mia vita. Non si tratta necessariamente della canzone migliore e nemmeno della mia preferita, diciamo che è quella che mi colpisce di più secondo un criterio del tutto variabile. Partendo dal 1995 (credo) ve le propongo: ci saranno anche cose imbarazzanti, ma sarebbe più imbarazzante se non ci fossero.


Versione 2

Dal pianeta Scozzo – tecnologicamente avanzatissimo ma con una società molto simile a quella del Giappone feudale – atterrò sul nostro pianeta (in un anno imprecisato – ma comunque erano gli anni ‘70) un viaggiatore dello spazio-tempo dal nome impronunciabile che – per comodità – si faceva chiamare Mitsu Sciosciammocca. Nel suo soggiorno terrestre prese ad esercitare l’attività di dj (col preciso scopo di copulare con donne e/o uomini terrestri) in un club nei sobborghi di Chicago (o forse era Caracas o forse Varese – la storia a volte si fa confusa). Dovette però interrompere ogni attività (dopo aver fattivamente contribuito alla nascita dell’ hip hop) quando venne a sapere che l’operato criminoso di alcuni petomani quantistici rischiava seriamente di minare il continuum spazio temporale che caratterizzava il nostro universo da svariati millenni. Prima di imbarcarsi in una missione suicida per la salvezza della struttura stessa della nostra realtà registrò una cinquantina (più o meno) di nastri. Me li consegnò dicendo queste parole: ‘ Se non dovessi farcela ascolta queste cassette e troverai il codice per decriptare l’ingresso al multi-verso e dare una nuova possibilità al mondo – altrimenti la realtà finirà per implodere su se stessa e assisteremo ad una sorta di big bang al contrario’. Dj Mitsu non ce l’ha fatta e, prima di rimanere annegato dall’empio bukkake col quale i suoi nemici petomani lo stavano per intrappolare, ha preferito commettere seppuku - con la sacra Katana del maestro Antonello Tsukamoto. La realtà pare abbia già cominciato a frantumarsi; il processo è lento ma inesorabile a meno che non venga scoperto il codice. Io le cassette le ho ascoltate ma non ci ho capito una minchia. Per cui ve le propongo un po’ alla volta sperando che qualcuno possa fare meglio di me.




p.s.

Sono vere tutte e due. 

 

lunedì 7 marzo 2022

Pages of Bettie






 Chiudiamo con queste ultime foto la rassegna dedicata alla mitica Bettie Page - si tratta di una serie di foto abbastanza nutrita che - negli ultimi anni (complice ripetute censure ricevute da facebook) - ha reso questo blog praticamente monotematico. Ovviamente ci sarebbero molte altre foto di Bettie da mostrare ma io non ho alcuna pretesa di completezza: consultando l'indice del blog ne troverete più di 300, alcune rare altre molto note. Ovviamente ci sono siti e pubblicazioni apposite per un approccio maggiormente filologico - il mio è stato solo un atto di ammirazione puro e semplice.