5 – REVENANT – REDIVIVO – Alejandro González Iñárritu
(u.s.a./2015)
Ispirato a ‘Revenant - La storia vera di Hugh Glass e
della sua vendetta’ di Michael Punke, a sua volta parzialmente basato sulla vita del cacciatore
di pelli Hugh Glass. La trama è piuttosto nota: un cacciatore di pelli ingaggiato
come guida per una spedizione di caccia (interpretato da Leonardo Di Caprio,
che – come sanno anche i sassi – ha finalmente vinto il suo primo premio oscar)
viene abbandonato in fin di vita dopo essere stato assalito da un orso, in una
delle scene oggettivamente più intense viste al cinema negli ultimi anni. La
lotta con l’animale – pur non avendolo ucciso – lo ha fortemente debilitato,
tanto che il cacciatore che era stato incaricato di assisterlo decide di
abbandonarlo, dopo averlo istigato al suicidio e dopo aver ucciso il figlio di
Glass (Hawk) ribellatosi all’inumana decisione.
Il nostro riesce comunque a riprendersi, anche grazie
all’aiuto di un indiano Pawnee anch’egli rimasto senza famiglia. Tutto il suo
viaggio sarà incentrato sulla volontà (oltre che di sopravvivere) di riprendere
la spedizione e vendicarsi.
Non mi soffermerei più di tanto sulla trama che in verità
è piuttosto nota (anche il grande film ‘Uomo bianco va col tuo Dio’ si ispirava
grosso modo alla stessa storia) quanto sullo stile prepotentemente viscerale ma
al contempo profondo adottato da un Iñárritu che realizza a questo giro il suo
film migliore, dimenticando finalmente le troiate pretenziose (impreziosite da
contorcimenti di sceneggiatura a firma Guillermo Arriaga). Sembra quasi di
vedere il Terrence Malick di ‘The new world’ ma senza voice over oppure un
Werner Herzog solo un filino più accessibile.
Naturalmente la grande parte del lavoro la fanno gli
ambienti naturali, splendidi e selvaggi, fotografati con una luce (naturale) sui toni
grigi e alquanto realistici – tipici di un tempo perennemente perturbato,
assolutamente adatta a far emergere un contesto di sentimenti tanto basici
quanto tonanti. Un racconto di fantasmi, dalla parte dei fantasmi.
4 – ROOM - Lenny Abrahamson (Irlanda, Canada – 2015)
Il film inizia presentandoci il piccolo Jack e sua madre
Joy. Dai loro giochi e dai loro dialoghi intuiamo che la stanza che li accoglie
è l’unico ambiente in cui vivono, tanto che il bambino è totalmente convinto
che non esista nulla al di fuori di quella stanza. Parte del fascino del film
sta proprio nel non far capire immediatamente il perché della situazione: si
possono fare congetture, ad esempio che la madre sia in realtà una psicopatica
paranoica (per quanto amorevole) oppure che i due siano in effetti gli ultimi
sopravvissuti di un qualche tipo di strage cosmica o guerra globale. Questo
momento iniziale è davvero una delle chiavi di lettura di un film che potremmo
definire fortemente ‘empatico’, in grado di restituirci lo straniamento di un
ragazzino che non conosce altro mondo che una camera e di una madre costretta a
questo ambiente. In realtà scopriamo abbastanza presto che Joy era stata rapita
– diversi anni prima, mentre andava a scuola – da un maniaco (Old Nick) il
quale l’ha segregata in un locale appositamente dedicato e l’ha pure messa
incinta.
Dopo il settimo compleanno di Jack, lui e la madre (che
intanto inizia a parlargli del mondo esterno, un mondo che il piccolo intuisce
esistere ma nel quale ancora non riesce a credere) inscenano un piano per
fuggire da quella casa. Il bimbo dovrà fingersi morto in modo che Old Nick sia
costretto a portarlo fuori di li (avvolto in un tappeto) e alla prima occasione
dovrà scappare per chiedere aiuto alle prime persone che incontra. Contro ogni
pronostico l’idea si rivelerà valida e la polizia riuscirà a liberare anche
Joy.
La vita esterna ovviamente non sarà poi tanto
facile. Certo all’inizio la commozione per la liberazione di questa ragazza
scomparsa da tanto tempo sembra avere la meglio su tutto, ma poi le cose
cambieranno e l’adattamento alla vita ‘di fuori’ non si rivelerà poi tanto
facile. I genitori di Joy – nel frattempo divorziati e risposatisi con altre
persone – fanno di tutto per farla sentire a suo agio ma la cosa è complicata
anche dal fatto che il padre non riesce ad accettare il piccolo Jack.
Per un attimo abbiamo la precisa percezione che non sia
cambiato poi tanto, che sia in fin dei conti solo una questione di punti di
riferimento, che anche il ‘mondo esterno’ altro non sia che una stanza – per
quanto grande – che ci tiene imprigionati. Ma il film si chiude con una tiepida
(ma salda) speranza – confidando nell’istinto (materno e di sopravvivenza).
3 – ANIMALI NOTTURNI – Tom Ford (u.s.a. – 2016)
Potremmo iniziare col decantare le doti del raffinato
stilista Tom Ford, ma io non ho la minima idea di cosa abbia mai fatto costui
prima di passare a dirigere film (qualche anno fa, con ‘A single man’). Oppure
decantare le doti attoriali di Amy Adams (ottima qui ma anche altrove, in
‘Arrival’ per esempio) o – perché no – di Jake Gyllenhaal, attore che riesce
sempre (o spesso perlomeno) a dare una certa impronta personale ai personaggi (la
cosa potrebbe anche essere un limite in certi casi ma qui no).
Eppure ‘Animali notturni’ colpisce più per il non detto
che per quello che dice. Si struttura come un racconto dentro un altro
racconto: la gallerista d’arte Susan, donna decisamente di successo, riceve un
romanzo (non ancora pubblicato, ma comunque già completo) dal suo ex marito,
col quale vi era stata anni prima una separazione molto traumatica, per lui
- soprattutto - che aveva fatto molta fatica ad accettare la cosa. Il romanzo viene
narrato sullo schermo per tramite degli stessi attori del plot ‘principale’
(che forse è secondario o – più probabilmente – sullo stesso piano) e
d’altronde è più che normale che sia così visto che i personaggi si ispirano
palesemente al vissuto dello scrittore: padre, madre e figlia adolescente
viaggiano di notte per raggiungere una località del Texas, per strade in zone
decisamente fuorimano, dove non prendono i telefoni cellulari (esistono davvero
zone così, non è un artifizio narrativo – cosa credevate?). Nel corso del
tragitto si avvicinano ad un’altra auto che prima li lascia passare e poi
improvvisa con loro una sorta di gara di velocità, costringendoli ad andare
fuori strada e a bucare una gomma. Gli occupanti della macchina si rivelano una
sorta di criminali di bassa lega con preoccupanti tendenze psicopatiche ed
inizieranno con la famigliola una sorta di gioco sadico che condurrà
all’uccisione di madre e figlia. Rimane il padre che – per il resto del film –
sarà occupato, insieme ad uno sceriffo oramai in fin di vita, ad individuare
gli autori del crudele gesto. Nel corso della narrazione Susan si ritroverà
anche a ripercorrere le fasi salienti della sua storia con l’ex marito Edward,
riscoprendo forse parti di sé a lungo nascoste in profondità (e il contrasto
tra le ‘superfici’ delle opere esposte – anche opere di carne, vedere per
credere – e gli abissi emozionali spalancati dalla lettura notturna si nota
parecchio – lo notiamo noi spettatori e lo sente fortemente la protagonista).
Il finale è prevedibile. Ma disturba ugualmente. Ti lascia una strana
sensazione che dura per giorni. E forse il desiderio di raccontare/raccontarsi
– che rimarrà necessario anche quando sarà troppo tardi.
2 – È SOLO LA FINE DEL MONDO – Xavier Dolan (Canada,
Francia – 2016)
Louis (Gaspard Ulliel) è un drammaturgo affermato, da
tempo vive lontano dalla famiglia – a Parigi, pare di intuire. Un giorno decide
però di far loro visita, non tanto per semplici ragioni affettive, quanto per
comunicare loro di persona una bruttissima notizia: gli rimane, infatti, ormai
poco da vivere e sceglie quindi di dire direttamente la cosa alla madre
ed ai fratelli. La cosa non sarà per niente semplice. I contrasti e le
disarmonie tra i vari membri della famiglia sono talmente ingombranti da
togliere lo spazio a qualsiasi altra cosa – non è che ci siano tra loro
questioni particolarmente gravi o drammatiche, si tratta semplicemente dei
piccoli rancori tra famigliari che il tempo e il ‘non detto’ tendono
solitamente ad ingigantire.
Un cast all star dà vita alla famiglia del protagonista:
Natalie Baye è la madre affettuosa ma un tantino svanita mentre Lea Saydoux è
la sorella più giovane che Louis non conosce bene malgrado lei lo ammiri molto
(ma in realtà vede in lui la possibilità di fuggire dalla vita di provincia).
Vincent Cassel è invece il fratello maggiore ed è forse il personaggio più
problematico e quello che vive con maggior astio il fatto che il fratello abbia
abbandonato il paese natio – ma forse c’è anche in lui una malcelata invidia
, mentre Marion Cottilard è la moglie di quest’ultimo, visibilmente in difficoltà
nel tentativo di mediare tra la cortesia nei confronti di Louis, appena
conosciuto e per il quale c’è una decisa simpatia e quello di contenere gli
attacchi nervosi del marito. Louis ci prova a più riprese a dire quello che
deve dire, mentre viene travolto dai ricordi e dal dialogare bulimico dei
famigliari – ci prova ma non ci riesce mai. Riesce a dirlo solo al fratello
mentre questo gli urla contro, però praticamente non viene creduto. I
personaggi (come già in ‘Mommy’) sono spesso tallonati in primissimo piano
(specie il protagonista) e questo certo aiuta a trasmettere le soggettività dei
vari caratteri. Facile pensare che in realtà Louis sia già morto (un fantasma,
in pratica) e che ci trovi davanti ad una sorta di elaborazione del lutto da
parte dei famigliari – però la metafora è ancora più palese e sta tutta nel
titolo – la fine del mondo non è solo l’apocalisse personale destinata al
protagonista ma è forse quella globale che spetta a tutti – la malattia del
protagonista è quella dell’umanità intera, il vociare dei famigliari è
l’insopportabile rumore di fondo dell’insistito chiacchiericcio su questioni le
più svariate, il dito che copre la luna (e il sole e l’atre stelle). Un film
che sembra non dire niente eppure ti mette tutto sotto gli occhi, esattamente
come fa Louis coi parenti.
1 – SOLE ALTO – Dalibor Matanic (Croazia, Serbia,
Slovenia/2015)
Un film che si compone di tre storie – tre storie d’amore
(in qualche modo) – interpretate sempre dagli stessi attori – un film sulla
speranza e sulla sua difficoltà a sopravvivere, a perpetuarsi ma anche a
morire.
La prima parte si svolge nel 1991, allorché Jelena e Ivan
decidono di lasciare il paese di origine per andare a vivere insieme a
Zagabria. Il problema sorge dal fatto che lui è croato e lei è serba – le
comunità di appartenenza semplicemente si odiano e quest’odio (a lungo celato e
forse perciò così forte) sta per esplodere in una delle guerre più cruente e
foriere di disillusione che mai si siano viste, perlomeno nella vecchia Europa,
perlomeno in tempi recenti.
La seconda parte si ambienta nel 2001, a conflitto ormai
concluso, seppure da poco. La giovane serba Natasha torna a vivere, con la
madre, nella casa dove risiedevano prima della guerra – qui le raggiunge Ante,
giovane muratore croato che le aiuta a rimettere a posto l’edificio. Natasha
non sopporta la sua presenza ma nel corso del tempo impareranno di avere in
comune più di quanto immaginano. Si troveranno a scopare selvaggiamente, come
riaffermazione di un istinto di sopravvivenza più forte di qualsiasi
considerazione umana – ma dopo le cose torneranno esattamente come prima, anzi
(un po’) peggio.
La terza parte si avvicina di più ai giorni nostri, collocandosi
nel 2011. Il ragazzo (croato) Luka torna al paese d’origine (che – chissà –
potrebbe essere lo stesso paesino dell’inizio – ma importa poco) per far visita
ai genitori e accompagnare gli amici ad un festival musicale. Troviamo il mare,
l’aria di vacanza, droghe e ragazze piuttosto disponibili. A Luka interessa
però qualcos’altro: vuole ritrovare Marija, una ragazza (serba) con la quale ha
avuto una relazione in passato, relazione che ha anche portato alla nascita di
un figlio. Lui vorrebbe tornare da lei e prendersi cura del bambino ma le
ferite del passato in qualche modo lo impediscono e dietro la patina di
modernità è ancora tutto lì. Il film si chiude così, con un profondo senso di
rassegnazione e sconfitta.
Fin troppo facile vedere nel destino dell’ex Jugoslavia
un monito al mondo contemporaneo: il rischio della disintegrazione violenta
innescata dai mille e più particolarismi spesso a base etnico/religiosa è
sempre dietro l’angolo, in Europa non meno che nel resto del mondo. Matanic non
intende però esporre proclami, non possiede soluzioni, non sa darne – forse
perché, ad oggi, nessuno di noi è capace. Registra quello strano incrocio tra
speranza ed istinto di conservazione (due cose che forse sono una sola) che
porta i corpi a desiderarsi - a copulare - ma poi niente: tutto l'intorno ci
condanna ed a volte un massacro è solo il modo per eternare le nostre
mediocrità di esseri umani, come sicurezze dalle quali non riusciamo a
staccarci. Una realistica amarezza ci pervade dopo la visione, durerà per
diversi giorni, guardandosi intorno.
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