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giovedì 9 marzo 2017

Conuntivi 2016 - Cinema (1)

Ok - sembra proprio che stia cercando di stabilire un record. Le playlist si pubblicano a fine anno o al massimo entro i primi giorni di gennaio. Le playlist però non servono a un cazzo, lo sapete tutti. L'unica cosa che mi sento di garantire è ,al solito, che ho visto tutti i film di cui parlo e ascoltato i dischi. Avrei voluto vedere e ascoltare di più, però non lo faccio di mestiere. Inoltre ritengo che un adeguato tempo di fruizione e meditazione sia necessario. Consumiamo tutto troppo in fretta. O forse sono troppo poco intelligente. Non che importi.



10 - IL CLUB – Pablo Larrain (Cile/2015)




Pablo Larrain a volte tocca argomenti un tantino da ‘cinema impegnato’ – da intendersi all’americana, con quel sentore costruttivo che fa tanto sani e democratici principi. Eppure non sa e non riesce a scrollarsi di dosso quel sentore cupo che lo accompagna sin dagli esordi (e chissà che con ‘Jackie’ non vada ad affrontare entrambi gli aspetti della sua poetica). ‘Il Club’ ci riporta indirettamente ai tempi di ‘Post mortem’ anche se è ambientato nel presente, la dittatura non c’è più e addirittura a capo della chiesa c’è un progressista come papa Francesco.
Il club del titolo è una sorta di ricovero per preti allontanati dalla chiesa, in genere per crimini di tipo sessuale. Ad accudirli c’è una suora, anche lei con qualcosa di pesante nel suo passato.
Padre Garcia è un gesuita inviato della Chiesa – rappresentante in qualche modo del nuovo corso inaugurato da papa Francesco – con il compito di indagare i motivi della presenza di quel tipo di istituto e della permanenza delle persone che ci stanno dentro. Non è però l’unico elemento perturbante della routine, infatti a seguito dell’ultimo arrivato tra i preti ‘fuori dalla grazia’ arriva tale Sandokan, ai tempi bambino abusato ed oggi adulto decisamente instabile, che instancabilmente urla le sue accuse davanti alla casa dei religiosi.
Il tono e la fotografia sono decisamente plumbei, la speranza è soffocata, l’essere umano non può che nascondersi in un luogo ‘lontano dalla luce’. A ben guardare è ancora – come ‘Post-mortem’ e gli altri film di Larrain, un film sul post-Pinochet o meglio, un film su quello che succede dopo la fine di un potere che pareva non scalfibile – una fine avvenuta (forse) senza esplosioni finali e nemmeno momenti formali (come il referendum in ‘No – I giorni dell’arcobaleno’) ma quasi per una semplice consunzione, un esaurirsi dovuto ad una lenta erosione della quale il dolore delle vittime è solo uno degli elementi.
I giudizi morali emergono ma non sono gridati, non c’è facile scandalismo – c’è persino una sorta di pietas seppure miscelata al disgusto, come spesso accade nel descrivere le miserie umane. 


9 – SING STREET – John Carney (Irlanda/2016)


 
Una trama semplice semplice, da teen movie anni ’80, quelli che detestavamo (ma per finta) quando passavano in tv, troppo presi come eravamo a captare le nuove tendenze dell’horror, della SF o ad inseguire zozzi b-movies del decennio precedente. Ma poi – piaccia o meno – quel cinema raccontava (in forme essenzialmente fiabesche) qualcosa di noi, qualcosa dei teen-agers che saremmo diventati (o che già eravamo, o che eravamo stati).
In ‘Sing street’ il giovane Conor è costretto a cambiare scuola per motivi economici e finisce in un liceo cattolico piuttosto severo nella Dublino dei primi anni ’80. Come se non bastasse i genitori stanno per divorziare.
Un giorno – fuori dalla scuola – conosce Raphina (Lucy Boynton), una ragazza più grande e già fidanzata della quale si innamora perdutamente. Decide così di mettere su una band allo scopo esclusivo di conquistarla. I pochi sfigati con i quali gli riesce di fare amicizia gli daranno una mano. Così – scopiazzando via via i nomi più importanti della new wave del periodo – estrapolati essenzialmente dalla collezione di dischi del fratello, riusciranno a suonare in giro e persino alla festa di fine anno della scuola.
La musica serve dunque a rompere le gabbie sociali, a smuovere le acque, a dare concretezza ai sogni.
Il lieto fine è in realtà solo apparente – la fuga di Conor e Raphina su una barchetta verso l’Inghilterra ha un deciso sapore onirico – lascia aperte le porte sia al meglio che al peggio, rigetta solo le vie di mezzo e i compromessi al ribasso.
Dopo quasi quarant’anni dalla loro fuga – ti sorprendi ad augurare loro (in modo romantico e infantile lo so, però me ne fotto) tutto il meglio possibile (e anche qualcosa di impossibile).
Ovviamente la colonna sonora è bellissima, non solo con riferimento ai pezzi dell’epoca ma anche alle canzoni originali composte per l’occasione. 



8 – LA PELLE DELL’ORSO – Marco Segato (Italia/2016)




Nell’Italia alpina degli anni ’50 il quattordicenne Domenico vive col padre Pietro dopo che la madre è morta in circostanze mai del tutto chiarite ma nelle quali, intuiamo, il padre ha una certa responsabilità. L’intero paese considera Pietro (interpretato da un ottimo Marco Paolini) una persona da cui tenersi alla larga e la sua dedizione all’alcol (vizio comunque piuttosto comune) non aiuta di certo.
Le cose prendono una piega diversa nel momento in cui un orso - soprannominato ‘il diavolo’ – vecchia conoscenza dei paesani, inizia a mietere vittime tra il bestiame locale. Il padrone della locale miniera decide di offrire un premio in denaro per chi riuscirà ad ucciderlo. Nello stupore generale Pietro si offre: se ce la fa avrà in cambio l’equivalente di un anno di stipendio (oltre ad una generale riabilitazione agli occhi dei paesani), se non riesce dovrà lavorare gratis, senza contare il rischio di non tornare vivo.
Dopo una prima giornata il giovane Domenico, che ormai aveva sviluppato la tendenza a ripescare il padre e riportarlo a casa, decide di mettersi sulle sue tracce. Nel viaggio avrà modo di incontrare una vecchia amica di sua madre che lo aiuterà ad apprendere alcune cose sul suo passato – questo fino al momento in cui riesce a ritrovare Pietro e la caccia all’orso entra nel vivo. I due scopriranno di avere una sorta di complicità e un affetto quasi inaspettato, che non riesce ad esprimersi con le parole ma che forse – proprio in ragione di ciò – è ancora più inattaccabile.
Senza rivelare il finale mi limito a dire che ‘La pelle dell’orso’ ha il sapore allo stesso tempo del grande western di un tempo - quello che tra i selvaggi scenari della frontiera celava racconti di formazione e crescita - e di quelle storie di cacciatori che molti di noi avranno l’impressione di aver sentito raccontare dai propri nonni, generalmente ambientate poco dopo la fine della guerra e talora racchiuse in libracci logori e impolverati. Un film davvero bello: bello nel suo silenzio, nel suo approcciarsi alla splendida natura dei luoghi, nel suo suggerire la necessità di un ascolto profondo per giungere alla verità.  
 
7 – AL DI LA DELLE MONTAGNE - Jia Zhang-ke (Cina/2015)






Tao (nome non privo di implicazioni) è una ragazza che vive a Fenyang, nel 1999. La Cina si avvia sempre più verso la sua fase di capitalismo selvaggio e lei è contesa tra due uomini: l’umile minatore Lianzi e il piccolo imprenditore (ma con notevoli prospettive di crescita) Zhang. Deciderà di sposare quest’ultimo provocando -  com’era prevedibile – la rottura dell’amicizia tra i due uomini e anche la partenza di Lianzi che si avvierà a cercare lavoro lontano dalla sua terra d’origine.
Il film procede per sbalzi temporali. Dopo quindici anni Tao si è oramai separata e vive in una sostanziale solitudine mentre il ricchissimo Zhang vive con un'altra donna ed ha ottenuto l’affidamento esclusivo del figlio, che la madre può incontrare solo rare volte. Lianzi è invece gravemente malato e si vede costretto a chiedere l’aiuto di Tao.
La terza parte del film si ambienta invece in un prossimo futuro(2025), in Australia, terra nella quale Zhang vive ormai ossessionato dalla sua ricchezza e dalle sue paranoie, mentre il figlio manifesta una sempre maggiore insicurezza ed un desiderio di scoprire radici culturali più profonde che gli paiono negate.
Tutta la prima parte della cinematografia di Jia Zhang-ke si compone di documentari che fotografano le trasformazioni delle Cina moderna, trasformazioni economiche ma ancor di più architettoniche e paesaggistiche. Anche il suo passaggio alla fiction non si discosta affatto da questi temi: ‘Still Life’ del 2006, prende le mosse dalla costruzione di un gigantesco cantiere, con la costruzione di una diga che provoca la totale cancellazione di un paesaggio urbano esistente solo poco tempo prima. La parentesi noir de ‘Il tocco del peccato’ non pare distrarre più di tanto Jia dalle tematiche a lui care per cui in ‘Al di là delle montagne’ la metafora si fa scoperta e persino superflua nel suo disvelarsi. Tao appare come la Cina di oggi (ma già di ieri, in realtà) dubbiosa se seguire il cuore (rimanendo nella sostanza povera, ma rispettosa delle proprie origini) o la ragione (arricchendo oltre misure). Sceglie la seconda opzione, senza convinzione, perché appare quasi una scelta obbligata, perché così vanno le cose nel manifestarsi di un ‘evidente destino’. Nessuna soluzione potrà portare alla felicità, certo Tao potrà condurre una vita agiata comunque, ma si vedrà progressivamente costretta a rinunciare agli affetti più cari. Con l’animo del documentarista Jia non offre facili risposte ma pone difficili domande, lascia emergere una situazione sociale ed alcune sue possibili evoluzioni e lo fa narrando la vita di persone e facendo emergere il loro smarrimento – spesso l’unico sentimento possibile.



6 – LO CHIAMAVANO JEEG ROBOT – Gabriele Mainetti (Italia/2016)






Quasi ci si sente banali ad inserire questo film nella lista. In fondo aveva già cominciato a fare incetta di premi ancor prima dell’uscita. Il rischio che fosse una minchiatona ovviamente c’era ma così non è stato. A sgombrare il campo dai possibili equivoci va detto che un’eventuale rilancio del cinema di genere made in Italy può di certo passare anche di qui ma non è un film solo a poter ribaltare anni di menefreghismo (del pubblico, della critica ufficiale, di autori e produttori) ed approssimazioni. Qualcosa, comunque, è già cambiato e, auguriamoci, altro ancora cambierà. Quello che ancora manca (e non è proprio un dato da sottovalutare) è un afflusso massiccio di pubblico in sala, ma, in fondo,  anche la semplice esistenza di un titolo come Jeeg Robot, la sua buona distribuzione, il fatto che comunque la gente abbia mossa le chiappe per andarselo a vedere fa davvero ben sperare.
La forza che può avere il genere oggi sta nel pescare a piene mani nel presente, nella realtà contemporanea senza scimmiottare il passato da un lato (il che non significa dimenticarlo ma rielaborarlo, semmai) e senza emulazione o sudditanza per i modelli stranieri dall'altro.
La trama del film la conoscete tutti. Il piccolo criminale Enzo Cecotti (residente a Tor della monaca – quando non ‘lavora’ si limita a consumare budini in vasetto e a guardare film porno) durante una fuga entra in contatto con materiale radioattivo. Da questo incidente scaturisce un super potere che dona al nostro protagonista una sorta di super forza: ben lungi dal riflettere sul fatto che ‘da un grande potere deriva una grande responsabilità’ Enzo usa le sue nuove abilità per delinquere meglio senonché questo lo porterà a confliggere con la banda dello Zingaro (strepitoso Luca Marinelli), un boss locale in piena fase espansionistica. Nel frattempo nasce un’amicizia con Alessia, una ragazza ingenua ma con diversi problemi. Sarà lei a battezzare Enzo Jeeg Robot, vista la sua fissazione per il cartone animato in questione. E sarà proprio il complesso rapporto con Alessia a segnare la metamorfosi da criminale a super eroe a tutti gli effetti. E verso il finale qualche paragone con Spider man viene alla mente e non pare peregrino.
Senza voler raccontare troppo bisogna ammettere che il film diverte e commuove – sa regalarci grandi personaggi ed una storia di super eroi e crimine profondamente italiana e forse proprio per questo dal possibile respiro internazionale. E poi un personaggio si chiama Sperma. Complimenti. 



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