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sabato 24 agosto 2013

La scala della follia (Dark places) – Don Sharp, 1973



Verrebbe quasi da rimpiangere i tempi in cui la rappresentazione dell’infanzia non doveva scadere per forza nella stucchevolezza e nell’edulcorazione; tempi in cui, per intenderci, i bambini potevano anche essere cattivi, posseduti dal demonio, psicopatici o – addirittura – dotati di una perversione dalle connotazioni esplicitamente sessuali. I tempi che viviamo – funestati dalla più truce correttezza politica – ci impediscono, tra le altre cose, uno sguardo vigile ma sereno sulla realtà o, per essere più precisi, ci tolgono il senso del guardare allo specifico di ogni singolo individuo, senza per ciò solo doverne trarre conseguenze “razziali” o “di genere” o quant’altro. Con questo modo di pensare – di grana grossa – se ne va anche la necessaria distinzione tra la comprensione di un fenomeno e la sua giustificazione. Il supposto rispetto del diverso finisce spesso – all’atto pratico – nel risolversi nel suo esatto contrario: negando cioè le differenze che ogni singolo individuo ha nei confronti dell’altro, tutelando invece – spesso con “discriminazioni positive” – solo quelle differenze ben codificate e “di gruppo”. E, nel limitato campo che qui andiamo a prendere in considerazione, impedendo alla cultura d’intrattenimento di invadere zone pericolose che potrebbero anche far sorgere dubbi sul pensiero unico (seppure, si vuol far credere, raggiunto nell’ambito di un iter democratico). In altri termini – e riconducendo il discorso alla rappresentazione dell’infanzia – i bambini sono creature angeliche e nessuno può azzardarsi anche solo di pensare che alcuni di essi coltivino anche sentimenti negativi o – semplificando all’estremo – siano “cattivi”. Con buona pace del “perverso polimorfo” di freudiana memoria[1]. Quasi come se gli adulti non fossero stati (tutti, senza eccezioni) prima bambini – a meno che non si voglia vedere nell’adolescenza (o nella “ragione” forse), per forza di cose, l’origine di tutti i mali.


Il signor Marr è un paziente in fin di vita di una clinica psichiatrica. Edward Foster (Robert Hardy) è il beneficiario di tutti i suoi beni non avendo il morituro parenti o congiunti in vita. I beni in questione consistono essenzialmente di un immobile – nel quale però è nascosta un’ingente somma di denaro (particolare questo che è lo stesso Marr a rivelare al suo erede). Preso così congedo dalla clinica, Foster si reca a prendere possesso del bene per tramite dell’affabile avvocato incaricato della sua gestione (Herbert Lom).
La casa si rivela ben presto un tantino pericolante tanto che il nostro protagonista si vede costretto a ricorrere alle cure di Ian Mendeville: il medico locale (Christopher Lee, elegante e dimesso), facendo contestualmente anche la conoscenza dell’avvenente Sarah, sorella di lui (una polposa benché matura Joan Collins) per la quale peraltro il dottore prova anche una malcelata e incestuosa attrazione. Scopriamo ben presto che intorno alla cupa magione non ci sono soltanto le inevitabili storie di fantasmi, dovute ovviamente a quei tragici fatti in essa avvenuti, dei quali intuiamo l’esistenza pur ignorandone l’esatta portata, ma anche interessi ben più prosaici relativi al denaro che l’ormai defunto mr. Marr aveva ivi occultato prima del suo internamento nella clinica dove poi rimarrà per sempre. Denaro che interessa dunque non solo al signor Foster, ma anche al dottore, a sua sorella e all’avvocato, il quale finge di ignorare il semplice fatto che ben difficilmente un insano di mente avrebbe potuto validamente disporre di una sua proprietà a favore di una persona sostanzialmente estranea. Ben presto Sarah si offre di aiutare lo spaesato nuovo arrivato a sistemare la casa, con lo scopo, non troppo dissimulato, di sedurlo e scoprire così dov’è nascosto il tanto spasimato malloppo. Le cose però non vanno tutte per il verso giusto: la casa oggetto dell’attenzione dei nostri personaggi – infatti – sembra davvero essere animata da presenze inquietanti, autrici sempre più spesso di rumori sinistri e spostamenti inspiegabili di oggetti. Come se non bastasse il povero Foster inizia a vivere dei veri e propri transfert che lo vedono impersonare il defunto proprietario della casa e ripercorrerne le orme, terminando improvvisamente nella realtà di tutti i giorni e facendolo sempre più scivolare verso uno stato di psicosi, a tratti anche violenta. È proprio durante questi transfert – o deja vu che dir si voglia – che veniamo a conoscenza di Sharon (Jane Birkin, meravigliosa come sempre), governante ed insegnante privata presso casa Marr e della quale lo stesso Marr si ritrova perdutamente invaghito (ricambiato, peraltro). Il problema sono però la moglie e i figlioli di lui: sia la signora che i due pargoletti (maschio e femmina) hanno infatti una decisa propensione verso la malattia mentale con tendenze ossessive. Il tentativo di relazionarsi a Sharon è infatti decisamente ostacolato dal fatto che i diabolici discoli spiano i due amanti in ogni dove, segnalandosi per altro con le loro sonore e frequenti risate. La situazione diviene talmente insostenibile che l’innamorato Marr prende la decisione di lasciare moglie e figli e fuggire con Sharon: per questo preleva tutti i suoi risparmi e li divide in due parti uguali, una per se e l’altra per gli abbandonati famigliari. Le cose vanno però in modo tragico ed inaspettato; la moglie infatti, avvertita dei propositi del marito dagli onnipresenti bimbi biondi, decide di “riparare” il matrimonio, affidando ai teneri pargoletti il compito di “sistemare” la povera Sharon. La situazione finisce decisamente “a schifio”, infatti muoiono tutti, ad eccezione del padrone di casa che però finisce nella casa di cura per malattie mentali dove lo abbiamo incontrato all’inizio. E – quasi inutile precisare – anche per i personaggi che si muovono nelle linea temporale del presente le cose non vanno meglio – complice soprattutto il fatto che oramai l’identificazione tra Marr e Foster è divenuta praticamente totale (e che ad interpretarli ci sia lo stesso attore aiuta la suggestione in tal senso).  Oltretutto veniamo anche a sapere che il signor Foster nella casa di cura non faceva propriamente l’impiegato amministrativo come andava raccontando in giro.
Jane Birkin - non ho trovato sue foto di scena da "Dark places", ma va bene lo stesso


C’è un senso morboso – e tutt’altro che aristocratico – in un certo cinema inglese del passato, a carattere certamente di intrattenimento ma che non si nega alcune ambizioni. Un cinema che, indubbiamente, trova negli anni ’70 il suo ambito temporale d’elezione e che non scorda mai l’assoluto piacere del raccontare. “Dark places” inizia lasciando presagire un film di fantasmi e case infestate, ma vira poi decisamente in una direzione diversa – e in verità ancor più angosciante – mettendo ben in risalto come gli spettri peggiori sono quelli che infestano il cervello umano, e lo fanno talmente bene da rendere del tutto irrisorio il confine tra materialità ed immaterialità. Il referente più prossimo al film di Sharp – non sarà sfuggito – è “Suspense” (o “The innocents”, ben più significativo titolo originale) di Jack Clayton, ispirato al “Giro di vite” di Henry James. Deriva in fondo (anche) da qui la caratterizzazione dei bambini come esseri in cui – in fin dei conti – è possibile rinvenire i germi del male – e i film in tal senso potrebbero essere veramente tanti da citare[2]. Oggi poi il politicamente corretto si è impadronito (o sembra averlo fatto) di tutto e tutti e pare averci fottuto il cervello senza rimedio, togliendo la voglia di raccontare e – temo – quella di capire.  
Dark places si ferma forse un gradino più sotto, soprattutto non possiede, rispetto al capolavoro succitato, quel margine di ambiguità che pare spalancare voragini di abiezione difficili da comprendere e circoscrivere appieno; eppure permane addosso come un senso di sporcizia, come l’idea di non essersi detti proprio tutto. Come se la tranquillità e la pace sociale fossero palazzi costruiti sulle macerie del rimosso e del volutamente ignorato. Un senso di sporco che porta con se dubbi atroci: e come tutti i dubbi possono fare sia bene che male. Ma si chiama libertà dopotutto. 
Joan Collins - non ancora perfida Alexis


Jane Birkin

locandina italiana





[2] Almeno un esempio made in Italy va fatto ed è “Reazione a catena”, praticamente coevo di Dark Places e paragonabile a “Suspense” per l’impatto sull’immaginario collettivo, oltre che per la pura e semplice bellezza.  




[1] Sigmund Freud – “Tre saggi sulla teoria sessuale”.

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