Verrebbe
quasi da rimpiangere i tempi in cui la rappresentazione dell’infanzia non
doveva scadere per forza nella stucchevolezza e nell’edulcorazione; tempi in
cui, per intenderci, i bambini potevano anche essere cattivi, posseduti dal
demonio, psicopatici o – addirittura – dotati di una perversione dalle
connotazioni esplicitamente sessuali. I tempi che viviamo – funestati dalla più
truce correttezza politica – ci impediscono, tra le altre cose, uno sguardo
vigile ma sereno sulla realtà o, per essere più precisi, ci tolgono il senso
del guardare allo specifico di ogni singolo individuo, senza per ciò solo
doverne trarre conseguenze “razziali” o “di genere” o quant’altro. Con questo
modo di pensare – di grana grossa – se ne va anche la necessaria distinzione
tra la comprensione di un fenomeno e la sua giustificazione. Il supposto
rispetto del diverso finisce spesso – all’atto pratico – nel risolversi nel suo
esatto contrario: negando cioè le differenze che ogni singolo individuo ha nei
confronti dell’altro, tutelando invece – spesso con “discriminazioni positive”
– solo quelle differenze ben codificate e “di gruppo”. E, nel limitato campo
che qui andiamo a prendere in considerazione, impedendo alla cultura
d’intrattenimento di invadere zone pericolose che potrebbero anche far sorgere
dubbi sul pensiero unico (seppure, si vuol far credere, raggiunto nell’ambito
di un iter democratico). In altri termini – e riconducendo il discorso alla
rappresentazione dell’infanzia – i bambini sono creature angeliche e nessuno può
azzardarsi anche solo di pensare che alcuni di essi coltivino anche sentimenti
negativi o – semplificando all’estremo – siano “cattivi”. Con buona pace del
“perverso polimorfo” di freudiana memoria[1].
Quasi come se gli adulti non fossero stati (tutti, senza eccezioni) prima
bambini – a meno che non si voglia vedere nell’adolescenza (o nella “ragione”
forse), per forza di cose, l’origine di tutti i mali.
Il
signor Marr è un paziente in fin di vita di una clinica psichiatrica. Edward
Foster (Robert Hardy) è il
beneficiario di tutti i suoi beni non avendo il morituro parenti o congiunti in
vita. I beni in questione consistono essenzialmente di un immobile – nel quale
però è nascosta un’ingente somma di denaro (particolare questo che è lo stesso
Marr a rivelare al suo erede). Preso così congedo dalla clinica, Foster si reca
a prendere possesso del bene per tramite dell’affabile avvocato incaricato
della sua gestione (Herbert Lom).
La
casa si rivela ben presto un tantino pericolante tanto che il nostro protagonista
si vede costretto a ricorrere alle cure di Ian Mendeville: il medico locale (Christopher Lee, elegante e dimesso),
facendo contestualmente anche la conoscenza dell’avvenente Sarah, sorella di
lui (una polposa benché matura Joan
Collins) per la quale peraltro il dottore prova anche una malcelata e
incestuosa attrazione. Scopriamo ben presto che intorno alla cupa magione non
ci sono soltanto le inevitabili storie di fantasmi, dovute ovviamente a quei tragici
fatti in essa avvenuti, dei quali intuiamo l’esistenza pur ignorandone l’esatta
portata, ma anche interessi ben più prosaici relativi al denaro che l’ormai
defunto mr. Marr aveva ivi occultato prima del suo internamento nella clinica
dove poi rimarrà per sempre. Denaro che interessa dunque non solo al signor
Foster, ma anche al dottore, a sua sorella e all’avvocato, il quale finge di
ignorare il semplice fatto che ben difficilmente un insano di mente avrebbe
potuto validamente disporre di una sua proprietà a favore di una persona
sostanzialmente estranea. Ben presto Sarah si offre di aiutare lo spaesato
nuovo arrivato a sistemare la casa, con lo scopo, non troppo dissimulato, di
sedurlo e scoprire così dov’è nascosto il tanto spasimato malloppo. Le cose
però non vanno tutte per il verso giusto: la casa oggetto dell’attenzione dei
nostri personaggi – infatti – sembra davvero essere animata da presenze
inquietanti, autrici sempre più spesso di rumori sinistri e spostamenti
inspiegabili di oggetti. Come se non bastasse il povero Foster inizia a vivere
dei veri e propri transfert che lo vedono impersonare il defunto proprietario
della casa e ripercorrerne le orme, terminando improvvisamente nella realtà di
tutti i giorni e facendolo sempre più scivolare verso uno stato di psicosi, a
tratti anche violenta. È proprio durante questi transfert – o deja vu che dir
si voglia – che veniamo a conoscenza di Sharon (Jane Birkin, meravigliosa come sempre), governante ed insegnante
privata presso casa Marr e della quale lo stesso Marr si ritrova perdutamente
invaghito (ricambiato, peraltro). Il problema sono però la moglie e i figlioli di
lui: sia la signora che i due pargoletti (maschio e femmina) hanno infatti una
decisa propensione verso la malattia mentale con tendenze ossessive. Il
tentativo di relazionarsi a Sharon è infatti decisamente ostacolato dal fatto
che i diabolici discoli spiano i due amanti in ogni dove, segnalandosi per
altro con le loro sonore e frequenti risate. La situazione diviene talmente
insostenibile che l’innamorato Marr prende la decisione di lasciare moglie e
figli e fuggire con Sharon: per questo preleva tutti i suoi risparmi e li
divide in due parti uguali, una per se e l’altra per gli abbandonati
famigliari. Le cose vanno però in modo tragico ed inaspettato; la moglie
infatti, avvertita dei propositi del marito dagli onnipresenti bimbi biondi,
decide di “riparare” il matrimonio,
affidando ai teneri pargoletti il compito di “sistemare” la povera Sharon. La situazione finisce decisamente “a schifio”, infatti muoiono tutti, ad
eccezione del padrone di casa che però finisce nella casa di cura per malattie
mentali dove lo abbiamo incontrato all’inizio. E – quasi inutile precisare –
anche per i personaggi che si muovono nelle linea temporale del presente le
cose non vanno meglio – complice soprattutto il fatto che oramai
l’identificazione tra Marr e Foster è divenuta praticamente totale (e che ad
interpretarli ci sia lo stesso attore aiuta la suggestione in tal senso). Oltretutto veniamo anche a sapere che il
signor Foster nella casa di cura non faceva propriamente l’impiegato
amministrativo come andava raccontando in giro.
Jane Birkin - non ho trovato sue foto di scena da "Dark places", ma va bene lo stesso |
C’è
un senso morboso – e tutt’altro che aristocratico – in un certo cinema inglese
del passato, a carattere certamente di intrattenimento ma che non si nega
alcune ambizioni. Un cinema che, indubbiamente, trova negli anni ’70 il suo
ambito temporale d’elezione e che non scorda mai l’assoluto piacere del
raccontare. “Dark places” inizia lasciando presagire un film di fantasmi e case
infestate, ma vira poi decisamente in una direzione diversa – e in verità ancor
più angosciante – mettendo ben in risalto come gli spettri peggiori sono quelli
che infestano il cervello umano, e lo fanno talmente bene da rendere del tutto
irrisorio il confine tra materialità ed immaterialità. Il referente più
prossimo al film di Sharp – non sarà sfuggito – è “Suspense” (o “The
innocents”, ben più significativo titolo originale) di Jack Clayton, ispirato al “Giro
di vite” di Henry James. Deriva
in fondo (anche) da qui la caratterizzazione dei bambini come esseri in cui –
in fin dei conti – è possibile rinvenire i germi del male – e i film in tal
senso potrebbero essere veramente tanti da citare[2].
Oggi poi il politicamente corretto si è impadronito (o sembra averlo fatto) di
tutto e tutti e pare averci fottuto il cervello senza rimedio, togliendo la
voglia di raccontare e – temo – quella di capire.
Dark places si ferma forse un gradino più sotto,
soprattutto non possiede, rispetto al capolavoro succitato, quel margine di
ambiguità che pare spalancare voragini di abiezione difficili da comprendere e
circoscrivere appieno; eppure permane addosso come un senso di sporcizia, come
l’idea di non essersi detti proprio tutto. Come se la tranquillità e la pace
sociale fossero palazzi costruiti sulle macerie del rimosso e del volutamente
ignorato. Un senso di sporco che porta con se dubbi atroci: e come tutti i
dubbi possono fare sia bene che male. Ma si chiama libertà dopotutto.
Joan Collins - non ancora perfida Alexis |
Jane Birkin |
locandina italiana |
[2] Almeno
un esempio made in Italy va fatto ed è “Reazione a catena”, praticamente coevo
di Dark Places e paragonabile a “Suspense” per l’impatto sull’immaginario
collettivo, oltre che per la pura e semplice bellezza.
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