n.16 – FRIEDRICHSTRASSE – Alessandro Bilotta/Matteo Mosca
Alessandro Bilotta è uno degli sceneggiatori di punta del
fumetto italiano contemporaneo e su questo non ci piove ma – come tutti – non
sempre riesce a centrare l’obiettivo (oppure sceglie l’obiettivo sbagliato).
L’albo in questione racconta le vicende di Friedrich, agente della Stasi, la
temibile polizia politica della Germania Est. La vicenda si ambienta durante
gli anni ’70 – periodo durante il quale i segni del decadimento dei regimi socialisti
dell’est potevano forse venire dedotti dall’attento osservatore ma erano ancora
lontani dal produrre conseguenze pratiche, o meglio alcune conseguenze ci
potevano anche essere: i tentativi di fuga dei dissidenti e la persecuzione
politica di coloro che di dissenso venivano sospettati. Naturalmente il
dissenso andava – se non proprio accertato – perlomeno nutrito di adeguati
elementi indiziari e proprio per questo alcuni cittadini venivano
sistematicamente spiati anche tramite intercettazioni telefoniche. Proprio di
questo si occupa Friedrich, incaricato di sorvegliare la cantante Marlene
Becker, invisa al regime proprio perché in odore di dissenso. Il problema è
però che lui ne è segretamente innamorato e non ha nessuna intenzione di
metterla nei guai – per questo eviterà accuratamente di riportare ogni dialogo
che la potrebbe incriminare, entrerà nella sua vita divenendone sostanzialmente
una sorta di angelo custode. I disegni di Matteo Mosca non sono affatto male
anche se io lo preferisco in ambientazioni diverse (meno legate al realismo ed
alla modernità) dove potrebbe anche esaltare al massimo quella vena
parzialmente grottesca che lo contraddistingue (per intenderci: Mercurio Loi è
una serie perfetta per il suo stile). Il problema qui, secondo me, sta nella
pochezza dell’idea di fondo; poco importa se qualcuno di noi vuole ancora
crogiolarsi nell’idea che poi in fondo il comunismo di matrice sovietica non
era poi così male o se invece altri vogliono descriverlo come l’inferno in
terra: stabilirlo può essere tutt’al più compito degli storici. E comunque a me
non importa discutere le idee politiche degli sceneggiatori quanto piuttosto il
modo con cui esse vengono espresse. Bilotta fa qui un lavoro derivativo in modo
imbarazzante – il punto di riferimento è, chiaramente e dichiaratamente, il
film ‘Le vite degli altri’ del 2006, bello certo, ma invero sopravvalutato
(premiato anche con l’oscar) del quale sposa l’impianto sostanziale della
trama, l’ambientazione, le caratteristiche dei personaggi e in definitiva tutto
il sentire di fondo. Davvero qui siamo ben oltre la citazione ma anche oltre la
scopiazzatura ci troviamo in un territorio a mezza strada tra il remake ed il
tributo, cosa che per me funzionerebbe a dovere solo se dichiarata in maniera
espressa e soprattutto se applicata a capolavori o comunque ad opere che
possono avere qualcosa da dire anche oltre la semplice fruizione dell’opera
stessa. Non mi pare che sia il caso de ‘Le vite degli altri’, film che al ‘non
detto’ lascia praticamente nulla ed infatti poi Friedrichstrasse lascia in
bocca l’amaro sapore di un riassuntino fatto da un insegnante un tantino
pedante. Peccato, ma ribadisco che i passi falsi ci vogliono per tutti.
[5]
n.17 – OXID AGE – Gigi Simeoni
La fantascienza post-atomica o catastrofica che dir si
voglia non si era ancora affacciata in questa collana (e – a dir il vero – ben
poco anche in casa Bonelli, con l’eccezione di Brendon che però tendeva
abbastanza al fantasy). Qui abbiamo tutti gli ingredienti tipici per cucinare
una saga post apocalittica come si deve: la terra di Innland è abitata da due
civiltà, la ricca Civilian e l’agricola Lith. A Civilian si è però diffuso il
morbo dell’ossidanza a cui è possibile sfuggire solo ricorrendo al sangue degli
abitanti di Lith – i quali a loro volta accettano di sacrificare periodicamente
alcuni di loro in cambio di carburante, indispensabile per il funzionamento
delle loro macchine agricole e senza il quale vi sarebbero grandi difficoltà di
sostentamento. Nel frattempo i civiliani ammalati vengono esiliati dalla città
e danno vita a bande di esuli: tra questi vi è Joe (il protagonista di questa
storia) che – dopo essere riuscito a rallentare il decorso della malattia
tramite le cure di un vecchio civiliano – incontra la lithiana Alba e – proprio
da questo incontro – pare poter nascere una possibile guarigione dalla malattia
e, forse, una pacificazione tra le due civiltà.
Come ho probabilmente già scritto altrove Simeoni è un
autore di grande qualità sia quando agisce ‘in solitaria’ (come qui) sia solo
come sceneggiatore. Il suo tratto grafico (che in certi casi mi pare
riecheggiare anche Magnus) guarda decisamente alla scuola franco-belga ed ha un
sapore classico e decisamente efficace che ben si presta alle varie
declinazioni della fantascienza, utilizzando ovviamente molto meno nero di
quanto non avvenisse nelle sue precedenti prove decisamente più votate al noir
o all’horror.
L’albo in questione si lascia leggere volentieri ma – a
voler essere sinceri – non è che appassioni più di tanto. Il problema sta a
monte, ossia proprio nel genere in se: il post atomico è stato esplorato in
lungo e in largo e – per poter dire qualcosa di nuovo o perlomeno di intrigante
– non bastano certo le 110 pagine di un singolo volume. In altri termini: qui
c’era il materiale per uno sviluppo narrativo ben più consistente, nel quale si
sarebbero potuti inserire elementi e personaggi che sfuggissero alla stereotipo
nel quale il poco spazio e il tanto da raccontare necessariamente li hanno
confinati. A pensarci bene sono le stesse considerazioni che si potevano fare
per l’esordio di ‘Dragonero’ (in un ‘Romanzo grafico Bonelli’ di vari anni fa,
che comunque aveva molte pagine in più di ‘Oxid Age’) poi si è visto come sono
andate le cose (cioè molto bene – anche se io personalmente non seguo la
serie).
Per ora direi senza infamia e senza lode – ma eventuali
futuri seguiti potrebbero farmi ricredere.
[6+]
n.18 – I COMBATTENTI – Luigi Mignacco/Paolo Raffaelli
Tom Madison e Jonas Whale sono due pugili impegnati in un
combattimento alla Royal Arena di Londra proprio nel momento in cui inizia un
bombardamento tedesco sulla capitale inglese: ovviamente il match viene sospeso
ma tra i due la rivalità rimane. La guerra imperversa e i nostri protagonisti
si trovano a viaggiare – per motivi bellici – in varie zone del mondo:
dall’Africa alla Birmania, alla Normandia. Eppure, nemmeno la violenza del
secondo conflitto mondiale riuscirà veramente a sopire la loro voglia di
riprendere la sfida ed ogni minima occasione sarà propizia per tornare ad
incrociare i pugni. Naturalmente però sarà la storia (con la s maiuscola) a
trionfare, almeno fino ad un finale che saprà ricollegarsi all’inizio,
rivelandoci la guerra quasi come una parentesi non troppo importante nella storia
dei due combattenti.
Luigi Mignacco è un narratore di razza ed anche qui
riesce bene a dimostrarlo prendendo spunto da ‘I Duellanti’ di Joseph Conrad
(ma anche dall’omonimo film di Ridley Scott) ma traslando il tutto nell’epoca
della seconda guerra mondiale e ponendo la boxe alla base della rivalità dei
personaggi. La narrazione funziona bene ed ha forse il suo unico limite in
un’eccessiva brevità: non che 112 pagine siano poche ma in effetti le vicende
si dipanano per tutto il corso della guerra per cui una maggiore ‘prolissità’
va detto che non ci sarebbe stata male. Comunque Mignacco sceneggia bene e con
un gran senso del ritmo evitando qualsiasi didascalismo ed adottando un
riuscito punto di vista, ‘esterno’ ma partecipe, grazie all’utilizzo di un altro
protagonista ossia il giornalista sportivo (ma che si trova a fare il cronista
di guerra) Milton; inoltre anche le parti più prettamente storiche sono ben
inserite nel racconto e risultano necessarie senza appesantire minimamente la
narrazione (anzi – vale come sopra – ce ne potevano stare di più).
A livello grafico ammetto di avere un debole per lo stile
di Paolo Raffaelli: il suo insieme di chiaroscuri e i suoi neri conferiscono
una certa malinconia di fondo alle tavole – uno stile davvero particolare e
personale che sa guardare a maestri come Pratt e Milazzo (ma questa è più
un’impressione di fondo – questione di atmosfere, non tanto di dati oggettivi)
risultando davvero ottimale per un racconto storico, soprattutto se a sfondo
bellico (ma funzionerebbe alla grande anche con il noir o il gotico). In
precedenza lo abbiamo potuto vedere su ‘Shangai Devil’, ‘Adam Wild’ (che è un
vero peccato sia terminato) e l’one shot ‘Keller’ sempre scritto da Mignacco
(che probabilmente sarà ristampato proprio dalle Storie). Ottimo lavoro.
[7,5]
n.19 – SCACCO ALLA REGINA – Giovanni Di Gregorio/Alessia
Fattore, Maurizio Di Vincenzo
La storia in questione è ambientata nel 1851, in quel di Londra,
ed inizia precisamente nel contesto di quella ‘Great exposition’ iniziata
proprio il primo maggio di quell’anno al fine di mettere in mostra svariate
opere dell’ingegno umano provenienti da tutto il mondo. Tra queste trova spazio
anche ADAM una sorta di calcolatore elettronico ante litteram (piuttosto
diverso dagli attuali) che esprime la volontà di ingaggiare una partita a
scacchi con Herr Fiehedrssen – antipatico e presuntuoso campione prussiano. Il
problema sorge però quando ci si rende conto che in gioco non c’è solo una
semplice prova d’intelligenza tra uomo e macchina ma anche delle vite umane:
infatti, nel momento in cui Fiehedrssen perde uno dei suoi pezzi, un gigantesco
automa a forma d’elefante (che è un po’ l’invenzione grafica migliore
dell’albo) giunge ad ammazzare un incolpevole suddito di sua maestà. Ben presto
si comprende come anche la scelta delle vittime non corrisponda ad una logica
casuale ma sia legata a doppio filo con l’importanza del pezzo eliminato. A
questo punto è sin troppo facile intuire quale sia la posta in gioco: nel caso
di eliminazione della regina sarà la stessa regina Vittoria ad essere in
pericolo di vita. A questo punto sorge il dilemma se lasciare che il giocatore
prussiano porti a compimento la sua strategia per vincere la partita oppure se
stare sulla difensiva cercando di limitare gli omicidi. La soluzione ovviamente
non la anticipo.
Dopo ‘Il moschettiere di ferro’ abbiamo, con quest’albo,
una nuova incursione della collana nello steampunk, questa volta visto in una
delle sue ambientazioni storiche più tipiche cioè l’Inghilterra vittoriana. A
questo si sommano vari ingredienti non originalissimi ma sempre dotati di un
loro fascino come la sfida uomo-macchina e la partita a scacchi (ma varrebbero
anche altri giochi) con cadaveri reali annessi. Gli elementi per costruire
qualcosa di intrigante ci sarebbero dunque tutti, eppure a mio parere questo
racconto non riesce a decollare mai davvero e il problema sta (forse) proprio
nell’eccessiva riconoscibilità degli elementi messi sul piatto: un po’ come se
l’idea di fondo del racconto non fosse altro che una sorta di ‘fusione fredda’
di suggestioni potenti eppure non sentite appieno. Fatto sta che il procedere
della narrazione a me ha lasciato piuttosto freddo non trovandovi né il coinvolgimento
tipico del giallo né quelle finezze intellettuali che nello steampunk ci stanno
sempre bene.
I disegni di Alessia Fattore (della quale ho visto solo
un altro albo – successivo – delle Storie) e di Maurizio Di Vincenzo (sempre
ottimo) non sono niente male – anche se, com’è ovvio trattandosi di lavoro a quattro
mani – risulta difficile distinguere gli stili. Personalmente non mi sembra il
loro lo stile più adatto per questo tipo di racconto e per le atmosfere che si
vorrebbero evocare ma – ripeto – la loro prova è comunque positiva. Nel
complesso l’albo mi lascia davvero freddo pur risultando un prodotto più che
dignitoso e che degli estimatori ne ha incontrati e potrebbe incontrarne
ancora.
[5]
n.20 – LA GABBIA – Paola Barbato/Daniele Caluri
Iniziamo col dire che la sensazione, prima
nell’accostarsi a questo albo, è piuttosto positiva, per quanto io possa avere
dubbi sugli autori coinvolti (di cui dirò in seguito). Il racconto si ambienta
all’interno di un ospedale psichiatrico ubicato in Washington D.C. (ma
qualsiasi altra città sarebbe andata bene): qui un gruppo di tre rapinatori in
fuga ha la bella pensata di rifugiarsi nella struttura sanitaria solo che il
sistema di sicurezza fa in modo che le uscite vengano completamente bloccate. A
questo punto inizia il caos perché i tre malcapitati si trovano in un ambiente
in cui è impossibile scappare e l’atmosfera non può proprio dirsi costruttiva, giacché
risulta totalmente impossibile riuscire a distinguere i pazienti (alcuni – si
può desumere – anche piuttosto pericolosi) dai visitatori e dal personale
sanitario; a questo va aggiunto il fatto che – com’è ovvio – c’è anche la
polizia che dà loro la caccia, pur essendo anche per loro impossibile entrare
dentro la struttura. Il bello del racconto sta proprio in questa sensazione di
inquietudine e incertezza che permea tutto il suo procedere mentre non mancano
i colpi di scena, abilmente dosati qua e là ed alternati a momenti – per così
dire - maggiormente descrittivi. In un
caso come questo il titolo ‘le storie’ si addice molto bene alla trama
presentata perché abbiamo proprio l’impressione – durante la lettura – di
venire messi a confronto con una moltitudine di ‘storie’ diverse, molte delle
quali mai sapremo o di cui verranno forniti solo brevi accenni, senza ulteriori
sviluppi. Un precipitarsi di eventi e di patologie della mente che a ben
guardare si vanno a inserire in un filone narrativo (pur piuttosto frequentato)
non privo di spazi da esplorare.
Devo ammettere che l’albo, però, nel suo complesso non mi
convince appieno: forse è proprio la sproporzione tra le ambizioni messe in
campo (che ben si presterebbero a racconti di più ampio respiro e – per così
dire – più ‘sperimentali’) e il modesto incedere thriller che altro non fa che
traslare in un ambiente di grande suggestione la tipica tematica dell’assedio a
lasciare un senso di indefinita mancanza di compiutezza e di visione
complessiva nel racconto: un po’ come se (per usare una metafora culinaria che
ho già usato altrove ma che mi pare funzionante), una volta scelti gli ingredienti
non si riesca poi ad amalgamarli efficacemente ma nemmeno più a discernere i
singoli sapori – una cosa che parte ma non riesce ad andare fino in fondo, in
altri termini.
Dicevo delle perplessità sugli autori. Paola Barbato è
anche brava ma ho come l’impressione che ogni tanto i suoi racconti si – per
così dire - ‘ingolfino’, quasi come se
si sforzasse di seguire uno spunto apparentemente valido che poi però non si
rivela in grado di reggere fino in fondo. Ebbi già questa impressione nel
leggere vari suoi ‘Dylan Dog’ (e dico questo tralasciando volutamente alcuni
obbrobri clamorosi quali la doppia storia a colori dedicata a Xabaras – degna
del peggior Chiaverotti) e questo si conferma anche qui: naturalmente non è il
mio un giudizio con pretese d’assolutezza, infatti non ho mai letto i suoi
romanzi ne altri fumetti come ‘Ut’: pertanto sono pronto a ricredermi[1].
Daniele Caluri invece va detto che è un ottimo
disegnatore: le perplessità nascono dal fatto che io lo conoscevo
prevalentemente in chiave umoristica sul Vernacoliere (in particolare amo molto
Don Zaucker) ma anche per ‘Nirvana’. In quell’ambito Caluri risulta anche
originale perché si capisce benissimo che il suo disegno ha una forte impronta
realistica che riesce a rendere ancor più graffianti le storie già di per se
parecchio divertenti. Passato al fumetto di impronta realistica (ha disegnato
anche Martin Mystere) il suo stile risulta sempre gradevole (anche molto) ma –
in un certo senso – più ‘anonimo’: riconosciamo nelle sue tavole parentele con
disegnatori di razza come possono essere Celoni o Casertano quindi non sarebbe
proprio il caso di lamentarsi – eppure qualche spunto personale in più non
guasterebbe.
[6]
[1] Non
importa a nessuno probabilmente. Io però mi limito a tentare di spiegare (a
parole, ovvio) le impressioni che mi nascono dalla lettura (e anche a
posteriori). Il rischio di sparare cazzate è chiaramente sempre dietro
l’angolo.
Nessun commento:
Posta un commento