Elenco blog personale

mercoledì 10 aprile 2019

Le Storie (Siamo Noi)/4








n.16 – FRIEDRICHSTRASSE – Alessandro Bilotta/Matteo Mosca 

Alessandro Bilotta è uno degli sceneggiatori di punta del fumetto italiano contemporaneo e su questo non ci piove ma – come tutti – non sempre riesce a centrare l’obiettivo (oppure sceglie l’obiettivo sbagliato). L’albo in questione racconta le vicende di Friedrich, agente della Stasi, la temibile polizia politica della Germania Est. La vicenda si ambienta durante gli anni ’70 – periodo durante il quale i segni del decadimento dei regimi socialisti dell’est potevano forse venire dedotti dall’attento osservatore ma erano ancora lontani dal produrre conseguenze pratiche, o meglio alcune conseguenze ci potevano anche essere: i tentativi di fuga dei dissidenti e la persecuzione politica di coloro che di dissenso venivano sospettati. Naturalmente il dissenso andava – se non proprio accertato – perlomeno nutrito di adeguati elementi indiziari e proprio per questo alcuni cittadini venivano sistematicamente spiati anche tramite intercettazioni telefoniche. Proprio di questo si occupa Friedrich, incaricato di sorvegliare la cantante Marlene Becker, invisa al regime proprio perché in odore di dissenso. Il problema è però che lui ne è segretamente innamorato e non ha nessuna intenzione di metterla nei guai – per questo eviterà accuratamente di riportare ogni dialogo che la potrebbe incriminare, entrerà nella sua vita divenendone sostanzialmente una sorta di angelo custode. I disegni di Matteo Mosca non sono affatto male anche se io lo preferisco in ambientazioni diverse (meno legate al realismo ed alla modernità) dove potrebbe anche esaltare al massimo quella vena parzialmente grottesca che lo contraddistingue (per intenderci: Mercurio Loi è una serie perfetta per il suo stile). Il problema qui, secondo me, sta nella pochezza dell’idea di fondo; poco importa se qualcuno di noi vuole ancora crogiolarsi nell’idea che poi in fondo il comunismo di matrice sovietica non era poi così male o se invece altri vogliono descriverlo come l’inferno in terra: stabilirlo può essere tutt’al più compito degli storici. E comunque a me non importa discutere le idee politiche degli sceneggiatori quanto piuttosto il modo con cui esse vengono espresse. Bilotta fa qui un lavoro derivativo in modo imbarazzante – il punto di riferimento è, chiaramente e dichiaratamente, il film ‘Le vite degli altri’ del 2006, bello certo, ma invero sopravvalutato (premiato anche con l’oscar) del quale sposa l’impianto sostanziale della trama, l’ambientazione, le caratteristiche dei personaggi e in definitiva tutto il sentire di fondo. Davvero qui siamo ben oltre la citazione ma anche oltre la scopiazzatura ci troviamo in un territorio a mezza strada tra il remake ed il tributo, cosa che per me funzionerebbe a dovere solo se dichiarata in maniera espressa e soprattutto se applicata a capolavori o comunque ad opere che possono avere qualcosa da dire anche oltre la semplice fruizione dell’opera stessa. Non mi pare che sia il caso de ‘Le vite degli altri’, film che al ‘non detto’ lascia praticamente nulla ed infatti poi Friedrichstrasse lascia in bocca l’amaro sapore di un riassuntino fatto da un insegnante un tantino pedante. Peccato, ma ribadisco che i passi falsi ci vogliono per tutti.

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n.17 – OXID AGE – Gigi Simeoni

La fantascienza post-atomica o catastrofica che dir si voglia non si era ancora affacciata in questa collana (e – a dir il vero – ben poco anche in casa Bonelli, con l’eccezione di Brendon che però tendeva abbastanza al fantasy). Qui abbiamo tutti gli ingredienti tipici per cucinare una saga post apocalittica come si deve: la terra di Innland è abitata da due civiltà, la ricca Civilian e l’agricola Lith. A Civilian si è però diffuso il morbo dell’ossidanza a cui è possibile sfuggire solo ricorrendo al sangue degli abitanti di Lith – i quali a loro volta accettano di sacrificare periodicamente alcuni di loro in cambio di carburante, indispensabile per il funzionamento delle loro macchine agricole e senza il quale vi sarebbero grandi difficoltà di sostentamento. Nel frattempo i civiliani ammalati vengono esiliati dalla città e danno vita a bande di esuli: tra questi vi è Joe (il protagonista di questa storia) che – dopo essere riuscito a rallentare il decorso della malattia tramite le cure di un vecchio civiliano – incontra la lithiana Alba e – proprio da questo incontro – pare poter nascere una possibile guarigione dalla malattia e, forse, una pacificazione tra le due civiltà.
Come ho probabilmente già scritto altrove Simeoni è un autore di grande qualità sia quando agisce ‘in solitaria’ (come qui) sia solo come sceneggiatore. Il suo tratto grafico (che in certi casi mi pare riecheggiare anche Magnus) guarda decisamente alla scuola franco-belga ed ha un sapore classico e decisamente efficace che ben si presta alle varie declinazioni della fantascienza, utilizzando ovviamente molto meno nero di quanto non avvenisse nelle sue precedenti prove decisamente più votate al noir o all’horror.  
L’albo in questione si lascia leggere volentieri ma – a voler essere sinceri – non è che appassioni più di tanto. Il problema sta a monte, ossia proprio nel genere in se: il post atomico è stato esplorato in lungo e in largo e – per poter dire qualcosa di nuovo o perlomeno di intrigante – non bastano certo le 110 pagine di un singolo volume. In altri termini: qui c’era il materiale per uno sviluppo narrativo ben più consistente, nel quale si sarebbero potuti inserire elementi e personaggi che sfuggissero alla stereotipo nel quale il poco spazio e il tanto da raccontare necessariamente li hanno confinati. A pensarci bene sono le stesse considerazioni che si potevano fare per l’esordio di ‘Dragonero’ (in un ‘Romanzo grafico Bonelli’ di vari anni fa, che comunque aveva molte pagine in più di ‘Oxid Age’) poi si è visto come sono andate le cose (cioè molto bene – anche se io personalmente non seguo la serie).
Per ora direi senza infamia e senza lode – ma eventuali futuri seguiti potrebbero farmi ricredere.

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n.18 – I COMBATTENTI – Luigi Mignacco/Paolo Raffaelli

Tom Madison e Jonas Whale sono due pugili impegnati in un combattimento alla Royal Arena di Londra proprio nel momento in cui inizia un bombardamento tedesco sulla capitale inglese: ovviamente il match viene sospeso ma tra i due la rivalità rimane. La guerra imperversa e i nostri protagonisti si trovano a viaggiare – per motivi bellici – in varie zone del mondo: dall’Africa alla Birmania, alla Normandia. Eppure, nemmeno la violenza del secondo conflitto mondiale riuscirà veramente a sopire la loro voglia di riprendere la sfida ed ogni minima occasione sarà propizia per tornare ad incrociare i pugni. Naturalmente però sarà la storia (con la s maiuscola) a trionfare, almeno fino ad un finale che saprà ricollegarsi all’inizio, rivelandoci la guerra quasi come una parentesi non troppo importante nella storia dei due combattenti.
Luigi Mignacco è un narratore di razza ed anche qui riesce bene a dimostrarlo prendendo spunto da ‘I Duellanti’ di Joseph Conrad (ma anche dall’omonimo film di Ridley Scott) ma traslando il tutto nell’epoca della seconda guerra mondiale e ponendo la boxe alla base della rivalità dei personaggi. La narrazione funziona bene ed ha forse il suo unico limite in un’eccessiva brevità: non che 112 pagine siano poche ma in effetti le vicende si dipanano per tutto il corso della guerra per cui una maggiore ‘prolissità’ va detto che non ci sarebbe stata male. Comunque Mignacco sceneggia bene e con un gran senso del ritmo evitando qualsiasi didascalismo ed adottando un riuscito punto di vista, ‘esterno’ ma partecipe, grazie all’utilizzo di un altro protagonista ossia il giornalista sportivo (ma che si trova a fare il cronista di guerra) Milton; inoltre anche le parti più prettamente storiche sono ben inserite nel racconto e risultano necessarie senza appesantire minimamente la narrazione (anzi – vale come sopra – ce ne potevano stare di più).
A livello grafico ammetto di avere un debole per lo stile di Paolo Raffaelli: il suo insieme di chiaroscuri e i suoi neri conferiscono una certa malinconia di fondo alle tavole – uno stile davvero particolare e personale che sa guardare a maestri come Pratt e Milazzo (ma questa è più un’impressione di fondo – questione di atmosfere, non tanto di dati oggettivi) risultando davvero ottimale per un racconto storico, soprattutto se a sfondo bellico (ma funzionerebbe alla grande anche con il noir o il gotico). In precedenza lo abbiamo potuto vedere su ‘Shangai Devil’, ‘Adam Wild’ (che è un vero peccato sia terminato) e l’one shot ‘Keller’ sempre scritto da Mignacco (che probabilmente sarà ristampato proprio dalle Storie). Ottimo lavoro.

[7,5]










n.19 – SCACCO ALLA REGINA – Giovanni Di Gregorio/Alessia Fattore, Maurizio Di Vincenzo

La storia in questione è ambientata nel 1851, in quel di Londra, ed inizia precisamente nel contesto di quella ‘Great exposition’ iniziata proprio il primo maggio di quell’anno al fine di mettere in mostra svariate opere dell’ingegno umano provenienti da tutto il mondo. Tra queste trova spazio anche ADAM una sorta di calcolatore elettronico ante litteram (piuttosto diverso dagli attuali) che esprime la volontà di ingaggiare una partita a scacchi con Herr Fiehedrssen – antipatico e presuntuoso campione prussiano. Il problema sorge però quando ci si rende conto che in gioco non c’è solo una semplice prova d’intelligenza tra uomo e macchina ma anche delle vite umane: infatti, nel momento in cui Fiehedrssen perde uno dei suoi pezzi, un gigantesco automa a forma d’elefante (che è un po’ l’invenzione grafica migliore dell’albo) giunge ad ammazzare un incolpevole suddito di sua maestà. Ben presto si comprende come anche la scelta delle vittime non corrisponda ad una logica casuale ma sia legata a doppio filo con l’importanza del pezzo eliminato. A questo punto è sin troppo facile intuire quale sia la posta in gioco: nel caso di eliminazione della regina sarà la stessa regina Vittoria ad essere in pericolo di vita. A questo punto sorge il dilemma se lasciare che il giocatore prussiano porti a compimento la sua strategia per vincere la partita oppure se stare sulla difensiva cercando di limitare gli omicidi. La soluzione ovviamente non la anticipo.
Dopo ‘Il moschettiere di ferro’ abbiamo, con quest’albo, una nuova incursione della collana nello steampunk, questa volta visto in una delle sue ambientazioni storiche più tipiche cioè l’Inghilterra vittoriana. A questo si sommano vari ingredienti non originalissimi ma sempre dotati di un loro fascino come la sfida uomo-macchina e la partita a scacchi (ma varrebbero anche altri giochi) con cadaveri reali annessi. Gli elementi per costruire qualcosa di intrigante ci sarebbero dunque tutti, eppure a mio parere questo racconto non riesce a decollare mai davvero e il problema sta (forse) proprio nell’eccessiva riconoscibilità degli elementi messi sul piatto: un po’ come se l’idea di fondo del racconto non fosse altro che una sorta di ‘fusione fredda’ di suggestioni potenti eppure non sentite appieno. Fatto sta che il procedere della narrazione a me ha lasciato piuttosto freddo non trovandovi né il coinvolgimento tipico del giallo né quelle finezze intellettuali che nello steampunk ci stanno sempre bene.
I disegni di Alessia Fattore (della quale ho visto solo un altro albo – successivo – delle Storie) e di Maurizio Di Vincenzo (sempre ottimo) non sono niente male – anche se, com’è ovvio trattandosi di lavoro a quattro mani – risulta difficile distinguere gli stili. Personalmente non mi sembra il loro lo stile più adatto per questo tipo di racconto e per le atmosfere che si vorrebbero evocare ma – ripeto – la loro prova è comunque positiva. Nel complesso l’albo mi lascia davvero freddo pur risultando un prodotto più che dignitoso e che degli estimatori ne ha incontrati e potrebbe incontrarne ancora.

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n.20 – LA GABBIA – Paola Barbato/Daniele Caluri

Iniziamo col dire che la sensazione, prima nell’accostarsi a questo albo, è piuttosto positiva, per quanto io possa avere dubbi sugli autori coinvolti (di cui dirò in seguito). Il racconto si ambienta all’interno di un ospedale psichiatrico ubicato in Washington D.C. (ma qualsiasi altra città sarebbe andata bene): qui un gruppo di tre rapinatori in fuga ha la bella pensata di rifugiarsi nella struttura sanitaria solo che il sistema di sicurezza fa in modo che le uscite vengano completamente bloccate. A questo punto inizia il caos perché i tre malcapitati si trovano in un ambiente in cui è impossibile scappare e l’atmosfera non può proprio dirsi costruttiva, giacché risulta totalmente impossibile riuscire a distinguere i pazienti (alcuni – si può desumere – anche piuttosto pericolosi) dai visitatori e dal personale sanitario; a questo va aggiunto il fatto che – com’è ovvio – c’è anche la polizia che dà loro la caccia, pur essendo anche per loro impossibile entrare dentro la struttura. Il bello del racconto sta proprio in questa sensazione di inquietudine e incertezza che permea tutto il suo procedere mentre non mancano i colpi di scena, abilmente dosati qua e là ed alternati a momenti – per così dire -  maggiormente descrittivi. In un caso come questo il titolo ‘le storie’ si addice molto bene alla trama presentata perché abbiamo proprio l’impressione – durante la lettura – di venire messi a confronto con una moltitudine di ‘storie’ diverse, molte delle quali mai sapremo o di cui verranno forniti solo brevi accenni, senza ulteriori sviluppi. Un precipitarsi di eventi e di patologie della mente che a ben guardare si vanno a inserire in un filone narrativo (pur piuttosto frequentato) non privo di spazi da esplorare.
Devo ammettere che l’albo, però, nel suo complesso non mi convince appieno: forse è proprio la sproporzione tra le ambizioni messe in campo (che ben si presterebbero a racconti di più ampio respiro e – per così dire – più ‘sperimentali’) e il modesto incedere thriller che altro non fa che traslare in un ambiente di grande suggestione la tipica tematica dell’assedio a lasciare un senso di indefinita mancanza di compiutezza e di visione complessiva nel racconto: un po’ come se (per usare una metafora culinaria che ho già usato altrove ma che mi pare funzionante), una volta scelti gli ingredienti non si riesca poi ad amalgamarli efficacemente ma nemmeno più a discernere i singoli sapori – una cosa che parte ma non riesce ad andare fino in fondo, in altri termini.
Dicevo delle perplessità sugli autori. Paola Barbato è anche brava ma ho come l’impressione che ogni tanto i suoi racconti si – per così dire -  ‘ingolfino’, quasi come se si sforzasse di seguire uno spunto apparentemente valido che poi però non si rivela in grado di reggere fino in fondo. Ebbi già questa impressione nel leggere vari suoi ‘Dylan Dog’ (e dico questo tralasciando volutamente alcuni obbrobri clamorosi quali la doppia storia a colori dedicata a Xabaras – degna del peggior Chiaverotti) e questo si conferma anche qui: naturalmente non è il mio un giudizio con pretese d’assolutezza, infatti non ho mai letto i suoi romanzi ne altri fumetti come ‘Ut’: pertanto sono pronto a ricredermi[1].
Daniele Caluri invece va detto che è un ottimo disegnatore: le perplessità nascono dal fatto che io lo conoscevo prevalentemente in chiave umoristica sul Vernacoliere (in particolare amo molto Don Zaucker) ma anche per ‘Nirvana’. In quell’ambito Caluri risulta anche originale perché si capisce benissimo che il suo disegno ha una forte impronta realistica che riesce a rendere ancor più graffianti le storie già di per se parecchio divertenti. Passato al fumetto di impronta realistica (ha disegnato anche Martin Mystere) il suo stile risulta sempre gradevole (anche molto) ma – in un certo senso – più ‘anonimo’: riconosciamo nelle sue tavole parentele con disegnatori di razza come possono essere Celoni o Casertano quindi non sarebbe proprio il caso di lamentarsi – eppure qualche spunto personale in più non guasterebbe.

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[1] Non importa a nessuno probabilmente. Io però mi limito a tentare di spiegare (a parole, ovvio) le impressioni che mi nascono dalla lettura (e anche a posteriori). Il rischio di sparare cazzate è chiaramente sempre dietro l’angolo.