Pablo Larrain a volte tocca argomenti un tantino da
‘cinema impegnato’ – da intendersi all’americana, con quel sentore costruttivo
che fa tanto sani e democratici principi. Eppure non sa e non riesce a scrollarsi
di dosso quel sentore cupo che lo accompagna sin dagli esordi (e chissà che con
‘Jackie’ non vada ad affrontare entrambi gli aspetti della sua poetica). ‘Il
Club’ ci riporta indirettamente ai tempi di ‘Post mortem’ anche se è ambientato
nel presente, la dittatura non c’è più e addirittura a capo della chiesa c’è un
progressista come papa Francesco.
Il club del titolo è una sorta di ricovero per preti
allontanati dalla chiesa, in genere per crimini di tipo sessuale. Ad accudirli
c’è una suora, anche lei con qualcosa di pesante nel suo passato.
Padre Garcia è un gesuita inviato della Chiesa –
rappresentante in qualche modo del nuovo corso inaugurato da papa Francesco –
con il compito di indagare i motivi della presenza di quel tipo di istituto e
della permanenza delle persone che ci stanno dentro. Non è però l’unico
elemento perturbante della routine, infatti a seguito dell’ultimo arrivato tra
i preti ‘fuori dalla grazia’ arriva tale Sandokan, ai tempi bambino abusato ed
oggi adulto decisamente instabile, che instancabilmente urla le sue accuse
davanti alla casa dei religiosi.
Il tono e la fotografia sono decisamente plumbei, la
speranza è soffocata, l’essere umano non può che nascondersi in un luogo
‘lontano dalla luce’. A ben guardare è ancora – come ‘Post-mortem’ e gli altri
film di Larrain, un film sul post-Pinochet o meglio, un film su quello che
succede dopo la fine di un potere che pareva non scalfibile – una fine avvenuta
(forse) senza esplosioni finali e nemmeno momenti formali (come il referendum
in ‘No – I giorni dell’arcobaleno’) ma quasi per una semplice consunzione, un
esaurirsi dovuto ad una lenta erosione della quale il dolore delle vittime è
solo uno degli elementi.
I giudizi morali emergono ma non sono gridati, non c’è
facile scandalismo – c’è persino una sorta di pietas seppure miscelata al disgusto, come spesso accade nel
descrivere le miserie umane.
9 – SING
STREET – John Carney (Irlanda/2016)
Una trama semplice semplice, da teen movie anni ’80,
quelli che detestavamo (ma per finta) quando passavano in tv, troppo presi come
eravamo a captare le nuove tendenze dell’horror, della SF o ad inseguire zozzi
b-movies del decennio precedente. Ma poi – piaccia o meno – quel cinema
raccontava (in forme essenzialmente fiabesche) qualcosa di noi, qualcosa dei
teen-agers che saremmo diventati (o che già eravamo, o che eravamo stati).
In ‘Sing street’ il giovane Conor è costretto a cambiare
scuola per motivi economici e finisce in un liceo cattolico piuttosto severo
nella Dublino dei primi anni ’80. Come se non bastasse i genitori stanno per
divorziare.
Un giorno – fuori dalla scuola – conosce Raphina (Lucy
Boynton), una ragazza più grande e già fidanzata della quale si innamora
perdutamente. Decide così di mettere su una band allo scopo esclusivo di
conquistarla. I pochi sfigati con i quali gli riesce di fare amicizia gli
daranno una mano. Così – scopiazzando via via i nomi più importanti della new
wave del periodo – estrapolati essenzialmente dalla collezione di dischi del
fratello, riusciranno a suonare in giro e persino alla festa di fine anno della
scuola.
La musica serve dunque a rompere le gabbie sociali, a
smuovere le acque, a dare concretezza ai sogni.
Il lieto fine è in realtà solo apparente – la fuga di
Conor e Raphina su una barchetta verso l’Inghilterra ha un deciso sapore
onirico – lascia aperte le porte sia al meglio che al peggio, rigetta solo le
vie di mezzo e i compromessi al ribasso.
Dopo quasi quarant’anni dalla loro fuga – ti sorprendi ad
augurare loro (in modo romantico e infantile lo so, però me ne fotto) tutto il
meglio possibile (e anche qualcosa di impossibile).
Ovviamente la colonna sonora è bellissima, non solo con
riferimento ai pezzi dell’epoca ma anche alle canzoni originali composte per
l’occasione.
8 – LA PELLE DELL’ORSO – Marco Segato (Italia/2016)
Nell’Italia alpina degli anni ’50 il quattordicenne
Domenico vive col padre Pietro dopo che la madre è morta in circostanze mai del
tutto chiarite ma nelle quali, intuiamo, il padre ha una certa responsabilità.
L’intero paese considera Pietro (interpretato da un ottimo Marco Paolini) una
persona da cui tenersi alla larga e la sua dedizione all’alcol (vizio comunque
piuttosto comune) non aiuta di certo.
Le cose prendono una piega diversa nel momento in cui un
orso - soprannominato ‘il diavolo’ – vecchia conoscenza dei paesani, inizia a
mietere vittime tra il bestiame locale. Il padrone della locale miniera decide
di offrire un premio in denaro per chi riuscirà ad ucciderlo. Nello stupore
generale Pietro si offre: se ce la fa avrà in cambio l’equivalente di un anno
di stipendio (oltre ad una generale riabilitazione agli occhi dei paesani),
se non riesce dovrà lavorare gratis, senza contare il rischio di non tornare
vivo.
Dopo una prima giornata il giovane Domenico, che ormai
aveva sviluppato la tendenza a ripescare il padre e riportarlo a casa, decide
di mettersi sulle sue tracce. Nel viaggio avrà modo di incontrare una vecchia
amica di sua madre che lo aiuterà ad apprendere alcune cose sul suo passato –
questo fino al momento in cui riesce a ritrovare Pietro e la caccia all’orso
entra nel vivo. I due scopriranno di avere una sorta di complicità e un affetto
quasi inaspettato, che non riesce ad esprimersi con le parole ma che forse –
proprio in ragione di ciò – è ancora più inattaccabile.
Senza rivelare il finale mi limito a dire che ‘La pelle
dell’orso’ ha il sapore allo stesso tempo del grande western di un tempo - quello che tra i selvaggi scenari della frontiera celava racconti di formazione
e crescita - e di quelle storie di cacciatori che molti di noi avranno l’impressione
di aver sentito raccontare dai propri nonni, generalmente ambientate poco dopo
la fine della guerra e talora racchiuse in libracci logori e impolverati. Un
film davvero bello: bello nel suo silenzio, nel suo approcciarsi alla splendida
natura dei luoghi, nel suo suggerire la necessità di un ascolto profondo per
giungere alla verità.
7 – AL DI LA DELLE MONTAGNE - Jia Zhang-ke (Cina/2015)
Tao (nome non privo di implicazioni) è una ragazza che
vive a Fenyang, nel 1999. La Cina si avvia sempre più verso la sua fase di
capitalismo selvaggio e lei è contesa tra due uomini: l’umile minatore Lianzi e
il piccolo imprenditore (ma con notevoli prospettive di crescita) Zhang.
Deciderà di sposare quest’ultimo provocando -
com’era prevedibile – la rottura dell’amicizia tra i due uomini e anche
la partenza di Lianzi che si avvierà a cercare lavoro lontano dalla sua terra
d’origine.
Il film procede per sbalzi temporali. Dopo quindici anni
Tao si è oramai separata e vive in una sostanziale solitudine mentre il
ricchissimo Zhang vive con un'altra donna ed ha ottenuto l’affidamento
esclusivo del figlio, che la madre può incontrare solo rare volte. Lianzi è
invece gravemente malato e si vede costretto a chiedere l’aiuto di Tao.
La terza parte del film si ambienta invece in un prossimo
futuro(2025), in Australia, terra nella quale Zhang vive ormai ossessionato
dalla sua ricchezza e dalle sue paranoie, mentre il figlio manifesta una sempre
maggiore insicurezza ed un desiderio di scoprire radici culturali più profonde
che gli paiono negate.
Tutta la prima parte della cinematografia di Jia Zhang-ke
si compone di documentari che fotografano le trasformazioni delle Cina moderna,
trasformazioni economiche ma ancor di più architettoniche e paesaggistiche.
Anche il suo passaggio alla fiction non si discosta affatto da questi temi:
‘Still Life’ del 2006, prende le mosse dalla costruzione di un gigantesco
cantiere, con la costruzione di una diga che provoca la totale cancellazione di
un paesaggio urbano esistente solo poco tempo prima. La parentesi noir de ‘Il
tocco del peccato’ non pare distrarre più di tanto Jia dalle tematiche a lui
care per cui in ‘Al di là delle montagne’ la metafora si fa scoperta e persino
superflua nel suo disvelarsi. Tao appare come la Cina di oggi (ma già di ieri,
in realtà) dubbiosa se seguire il cuore (rimanendo nella sostanza povera, ma
rispettosa delle proprie origini) o la ragione (arricchendo oltre misure).
Sceglie la seconda opzione, senza convinzione, perché appare quasi una scelta
obbligata, perché così vanno le cose nel manifestarsi di un ‘evidente destino’.
Nessuna soluzione potrà portare alla felicità, certo Tao potrà condurre una
vita agiata comunque, ma si vedrà progressivamente costretta a rinunciare agli
affetti più cari. Con l’animo del documentarista Jia non offre facili risposte
ma pone difficili domande, lascia emergere una situazione sociale ed alcune sue
possibili evoluzioni e lo fa narrando la vita di persone e facendo emergere il
loro smarrimento – spesso l’unico sentimento possibile.
6 – LO CHIAMAVANO JEEG ROBOT – Gabriele Mainetti
(Italia/2016)
Quasi ci si sente banali ad inserire questo film nella
lista. In fondo aveva già cominciato a fare incetta di premi ancor prima
dell’uscita. Il rischio che fosse una minchiatona ovviamente c’era ma così non
è stato. A sgombrare il campo dai possibili equivoci va detto che un’eventuale
rilancio del cinema di genere made in Italy può di certo passare anche
di qui ma non è un film solo a poter ribaltare anni di menefreghismo (del
pubblico, della critica ufficiale, di autori e produttori) ed approssimazioni.
Qualcosa, comunque, è già cambiato e, auguriamoci, altro ancora cambierà.
Quello che ancora manca (e non è proprio un dato da sottovalutare) è un
afflusso massiccio di pubblico in sala, ma, in fondo, anche la semplice esistenza
di un titolo come Jeeg Robot, la sua buona distribuzione, il fatto che comunque
la gente abbia mossa le chiappe per andarselo a vedere fa davvero ben sperare.
La forza che può avere il genere oggi sta nel pescare a
piene mani nel presente, nella realtà contemporanea senza scimmiottare il
passato da un lato (il che non significa dimenticarlo ma rielaborarlo, semmai) e
senza emulazione o sudditanza per i modelli stranieri dall'altro.
La trama del film la conoscete tutti. Il piccolo
criminale Enzo Cecotti (residente a Tor della monaca – quando non ‘lavora’ si
limita a consumare budini in vasetto e a guardare film porno) durante una fuga
entra in contatto con materiale radioattivo. Da questo incidente scaturisce un
super potere che dona al nostro protagonista una sorta di super forza: ben
lungi dal riflettere sul fatto che ‘da un grande potere deriva una grande
responsabilità’ Enzo usa le sue nuove abilità per delinquere meglio senonché
questo lo porterà a confliggere con la banda dello Zingaro (strepitoso Luca
Marinelli), un boss locale in piena fase espansionistica. Nel frattempo nasce
un’amicizia con Alessia, una ragazza ingenua ma con diversi problemi. Sarà lei
a battezzare Enzo Jeeg Robot, vista la sua fissazione per il cartone animato in
questione. E sarà proprio il complesso rapporto con Alessia a segnare la
metamorfosi da criminale a super eroe a tutti gli effetti. E verso il finale
qualche paragone con Spider man viene alla mente e non pare peregrino.
Senza voler raccontare troppo bisogna ammettere che il
film diverte e commuove – sa regalarci grandi personaggi ed una storia di super
eroi e crimine profondamente italiana e forse proprio per questo dal possibile
respiro internazionale. E poi un personaggio si chiama Sperma. Complimenti.