Ci
sono opere di finzione che si impongono nell’immaginario di una persona in modo
tanto indelebile quanto – in fondo – non facilmente giustificabile o,
perlomeno, non giustificabile in termini meramente razionali. Tanto per essere
chiari, si tratta il più delle volte di film (o musiche, libri, fumetti,
pubblicità, particolari architettonici o quant’altro) visti – spesso non
interamente – in tenera o tenerissima età ed assurti al rango di elemento
mitologico personale, per motivi che poco o nulla hanno a che fare coi meriti
oggettivi dell’opera e molto – invece – con un processo che definirei di auto
narrazione. Per spiegarmi meglio: avete presente quando vedevate un film la
sera in tv da bambini (magari solo un pezzetto, perché dovevate andare a letto
presto) e poi il giorno dopo ne mimavate le scene ai compagni di classe. Ecco
-fondamentalmente – si realizzava un
altro film, ingigantito, con la trama semplificata ma anche resa maggiormente
epica. La mente – sia del narratore che degli astanti – dava corpo ad una vera
e propria mitopoiesi – creando pellicole che finivano per diventare un oggetto
del desiderio dotato di un plusvalore che – sulle prime – sarebbe forse stato
destinato a sfuggirti. In realtà “Grizzly”,
come anche tutto il grosso della produzione eco-vengeance anni ’70 e primi ’80,
è stato scoperto da me (e dalla maggioranza dei miei coetanei) attraverso la
visione su reti privati ben più scassone delle già fin troppo edulcorate reti
mediaset (che, va detto – antipatia politica a parte – erano comunque meglio
durante il loro primo decennio di vita di quanto non siano mai più state dopo);
emittenti a diffusione grossomodo regionale che sapevano offrire - anche se il
cosiddetto far west televisivo era già finito – visioni goduriose e deliranti a
chi – come noi preadolescenti dell’epoca – era in cerca di brividi, di terrore
o erotici che fossero.
Io
– tanto per dire – da ragazzino, “Grizzly”
non sono riuscito mai a vederlo per intero, finiva sempre, per un motivo o per
l’altro che mi ci addormentavo in mezzo. Eppure ad ogni replica ero di nuovo
pronto di fronte al televisore, saturo di un rinnovato – o persino aumentato –
entusiasmo. Il richiamo che quel ferocissimo plantigrado esercitava su di me
aveva qualcosa di inverosimile: che il film fosse bello o brutto, appassionante
o noioso, splatter o meno, aveva un’importanza davvero relativa. Ci doveva
essere un orso e quest’orso doveva far strage di malcapitati turisti, punto e
basta. Poi – va da sé – se avessi avuto la forza di stare sveglio fino in fondo
(e se ci vedete un qualcosa da rito iniziatico è probabile che ci sia) il
mostro che – nelle mie precedenti visioni – si era mostrato sempre con una
certa parsimonia, si sarebbe finalmente palesato in tutto il suo sinistro
splendore. Poi però successe qualcosa e – così come era arrivato – “Grizzly, l’orso che uccide”, uno dei film più replicati della storia
dell’emittenza locale – scomparve dai palinsesti. O forse – più semplicemente –
da casa mia non si prendevano più i canali che lo continuavano a trasmettere.
Col
passare del tempo il ricordo della pellicola in questione è assurto al rango di
pietruzza depositata nell’inconscio – di quelle cose collocate nel mondo di
un’infanzia dorata ma sempre più rimossa, cose che non sai nemmeno se – in
effetti – siano esistite o meno. Tutto ciò almeno fino al momento in cui –
alcuni mesi fa – mi capitò di imbattermi in un dvd (su etichetta Quadrifoglio – con tanto di mucca nel logo, vabbè) che
non potei astenermi dall’acquistare. E diciamo subito che, a differenza di
quanto a volte accade coi video di b movies distribuiti da piccole etichette,
il dvd in questione è buono seppur parco di extra che non siano il trailer e la
suddivisione in scene (ma chissenefrega –
meglio così che sei ore di commenti audio che di tutto parlano tranne che del
film).
La
visione dell’oscuro oggetto del desiderio si rivela quello che – tutto sommato
– avrei potuto – in piena età adulta – aspettarmi da un film di questo tipo. Si
rientra infatti in piena eco-vengeance post “Lo squalo”. Abbiamo un ambiente naturale pieno zeppo di turisti, un
animale che presenta vistose anomalie rispetto alla norma della sua specie
oltre alle ovvie tendenze omicide, scienziati e/o membri delle forze
dell’ordine che avvertono del pericolo, affaristi senza scrupoli che
sottovalutano la questione essenzialmente per salvaguardare il loro profitto.
Lo svolgimento è abbastanza prevedibile ma tutto sommato si fa guardare con
piacere, risultando (come in effetti già lo Squalo spielberghiano) più un
robusto film di avventura tradizionale che un horror.
Due
scene restano impresse, per quanto di breve durata e di importanza in fondo
relativa nell’economia complessiva del film: nella prima ad un bambino assalito
dall’orso viene staccata di netto un gamba ed il malcapitato infante così
mutilato viene inquadrato per un breve istante. Una cosa da poco, d’accordo,
eppure è quella nota di crudeltà che non ti aspetteresti, quel piccolo pugno
nello stomaco che ti risolleva l’attenzione verso un film quasi
programmaticamente moscio. L’altra scena è verso la fine, quando il naturalista
professor Scott sta cavalcando alla ricerca del grizzly ma quest’ultimo lo
sorprende e – con mossa fulminea – gli decapita il cavallo. Lo scienziato si
guarda in avanti quasi pensando di poter continuare a cavalcare un animale
senza testa, poi rovina al suolo. Ecco, dunque, cosa salvare di un mito della
mia infanzia televisiva, due flash mob di grezza crudeltà contro bambini ed
animali. Un po’ pochino certo, eppure non nego che il film complessivamente mi
abbia divertito. Forse solo per la necessità – che penso animi molti – di
recuperare elementi della propria vita giovanile ed analizzarli con occhi
nuovi. O in altri termini il sottile piacere che dà lo scoprirsi cresciuti ma
non poi così cresciuti.
Il
regista William Girdler ha anche diretto alcuni film blaxploitation come “Sheba baby” (con Pam Grier) e “Zebra killer” nonché altri piccoli cult
horror quali “Abby” e “Manitù, lo spirito del male” (pellicole
di cui mi riprometto di parlare non appena riuscirò a metterci le mani sopra).