“In the beggining there was only man and
nature
Men came bearing crosses and drove the heathen
To the fringes of the earth”
La
recente visione del notevole “Solo Dio
perdona” mi ha spinto a recuperare (con colpevole ritardo, mi rendo conto)
anche la restante filmografia di Refn. Alcuni tratti comuni emergono subito e
con una certa chiarezza: gli “eroi” di questi film sono decisamente silenziosi
e la critica – almeno quella più ufficiale e mainstream – non apprezza, in nome
– pare di capire – di una supposta estetizzazione e glorificazione formale
della violenza, di cui il buon Nicholas si farebbe portatore. Violenza senza
tracce di ironia dunque: ecco perché Tarantino
si e Refn no. E anche senza provocazioni intellettuali – quantomeno esplicite –
a rimarcare la distanza dal connazionale Lars
Von Trier che, per quanto estremo, riesce comunque a farsi accettare (anche
se poi sono le sue opere più irritanti e spocchiose – tipo “Il grande capo” o “Dogville” – a venire apprezzate, mentre per le cose realmente
disturbanti ecco venire in soccorso le solite risatine degli intellettualoidi
di turno, disposti a tutto meno che a ridiscutere certezze). Quello di Refn è
cinema disturbante. E che fa pensare, appassiona ed emoziona. E questo senza
esibizioni di “contenuti” ma basandosi solo sulla pura e semplice forza della
messa in scena. Su stile e scelte formali che sanno farsi “sostanza”. Abbiamo
la fortuna di esserci imbattuti in un Autore che fa “film d’autore” che – però
– sono anche “film di genere”. Non che basti questo ad incensarlo però in
effetti non è un dato di poco conto. Intendiamoci: non è l’unico ad abitare o
ad avere abitato questa ipotetica “area grigia”, mi vengono in mente Jodorowski, Ken Russell, David Cronenberg,
Takashi Miike e l’elenco potrebbe continuare a lungo, prendendo magari
qualche sbandata.
Quella
per il grande Jodo è peraltro una passione esplicitata nella dedica finale di “Only God Forgives”. Gli eroi silenziosi ed ultraviolenti paiono avere qui le
stesse pulsioni mistiche ed “iniziatiche” che caratterizzano molti dei
protagonisti delle opere del grande cileno (parlo dei film ma anche dei fumetti
– si pensi alla ferrea disciplina dei meta baroni nel roboante affresco sf
della “Casta dei Meta-Baroni”) ma
anche – talvolta – lo stesso smarrimento. Il surrealismo (da intendersi in
senso lato – ché il movimento panico dal surrealismo storico partiva, ma osava
criticarlo e superarlo) tanto amato e praticato dalle pellicole di Jodo,
risulta invece meno determinante in Refn; si trovano piuttosto tracce di una
visione fredda e contemplativa, uno sguardo tanto raggelato quanto acuminato ed
attento, capace di far affiorare il misticismo e il mistero dagli elementi –
minacciosi il più delle volte – che circondano i personaggi. Un tratto che
rimanda a quella che parrebbe essere un'altra influenza determinate per il
nostro, ovvero Andrei Tarkovsky. Ma
anche – perché no – Terrence Malick
(e guardando “Valhalla Rising” è
difficile non pensare almeno per un attimo a “The New World”) o il Sokurov
di “Madre e Figlio”. Per quanto riguarda altri paragoni letti in giro – e
riferiti al solo “Valhalla Rising”, che per il restante corpus filmico non
avrebbero senso - ammetto qualche
assonanza con Mel Gibson ma si tratta
solo di dati superficiali, in quanto Refn vede la violenza come veicolo spirituale
- l’unico possibile in circostanze disperate – ma oltre questo dato non mi pare
condivida l’ossessione “corporale” dei film di Gibson, che – da regista – ha in
definitiva sempre ruotato attorno all’unico tema della tortura e
dell’umiliazione del corpo (in un più o meno latente desiderio di martirio),
visione comunque ben diversa dalla “dolente necessità” e dall’estetica dei
corpi smembrati (smembrati in fretta – fateci caso: nessun martirio, solo puro
e semplice omicidio) di Refn. Per dirla in altri termini: in Refn è
l’illuminato ad uccidere, in Gibson si diventa illuminati venendo uccisi o –
meglio ancora – torturati). Liquidabile invece come uno scherzo il paragone con
“300”, l’unico tratto comune è
l’essere ambientati in epoche storiche antiche, dopodiché con il pastiche nazi gay itterico
di Zack Snyder abbiamo davvero poco a che
spartire. Sentore ben presente è, invece, quello di Werner Herzog e, in special modo di “Aguirre, furore di Dio” e della sua deriva mistico-silente. Ancora
poi a livello letterario non può non venire alla mente il Joseph Conrad di “Cuore di
tenebra”.
Vi
diranno dunque che si tratta di un film pretenzioso e autoindulgente o
viceversa di un’opera che cede alla moda della violenza, di un filmaccio di
bassa lega, aggiungendo magari che è “lento”
e che “non si capisce un cazzo”.
Tutte caratteristiche queste che, quando sono enumerate da un certo tipo di
spettatori-critici non possono fare a meno di ingolosire un certo altro tipo di
spettatore-critico. Quel tipo di fruitore che – per intenderci – non ha
abiurato affatto né intende farlo dall’idea che il cinema possa (e debba,
talvolta) essere anche “pericoloso”.
La
trama si impernia attorno al guerriero muto (o almeno presunto tale) e senza un
occhio One Eye (Mads Mikkelsen, lo
stesso de “Il Sospetto” di Vinterberg). L’ambientazione è quella
delle terre Vichinghe, in un epoca imprecisata ma all’altezza delle crociate,
in piena “cristianizzazione” del nord Europa – processo, ricordiamolo, spesso
forzato e che incontrò non poche resistenze. Qui si aggira il ferocissimo
guerriero silente, accompagnato da un bambino biondo, che si è a lui aggregato
dopo la perdita dei genitori e di tutto il villaggio (sono elementi non
immediatamente spiegati, ma che risultano dal prosieguo della visione). I due
si imbattono in un gruppo di cristiani i quali si dichiarano intenzionati ad
andare in terra santa, allo scopo di combattere per strapparla agli infedeli.
Non avendo poi molte alternative One Eye e il bimbo si aggregano alla
spedizione. L’arrivo non sarà però in medio oriente ma da tutt’altra parte.
Nell’inferno “al di là dell’oceano” dal quale il ragazzino afferma che lo
stesso One Eye sia arrivato, sfruttando una sorta di legame telepatico che
permette all’uno di parlare in vece dell’altro.
La terra che hanno raggiunto si presenta tanto lussureggiante quanto
carica di minacce: una terra sostanzialmente aliena nella quale la presenza
dell’uomo è carattere ampiamente secondario. Nella quale, soprattutto, Dio è
assente. È forse l’implicita considerazione che l’assenza dell’uomo (o di
cristiani, quantomeno) genera anche l’assenza di Dio a scatenare il panico
interiore, a rivelare una sorta di male primigenio insito nella creazione
stessa, una crudeltà ed un pericolo che non vengono mai meno perché connaturati
all’essere umano e ad ogni aspetto del creato. Come a dire che il male esiste
in natura mentre il bene è invenzione dell’uomo. O, spingendosi oltre, Dio è
l’invenzione umana per contrastare il diavolo che invece è reale. Certo si può
anche obiettare che il terrore (parente del pessimismo leopardiano) generato da
questa visione nasce dal considerare “uomo” e “natura” come entità separate
seppur destinate ad interagire, mentre forse verrebbe meno se considerassimo
l’uomo come “parte della natura”, implicando ciò anche la rinuncia a concetti
solo e soltanto umani quali quelli di bene e male. Ma sarebbe illusorio pensare
che un semplice ribaltamento – per quanto razionale – del pensiero abbia in se
il dono di ribaltare millenni di (auto)condizionamento culturale. Ancor più
illusorio sarebbe pensare che un ragionamento così fosse alla portata dell’uomo
del medioevo, in specie se fanatico religioso. La sensazione che il film
trasmette maggiormente dunque è riassumibile nel sillogismo per cui l’uomo è la
specie dominante e ogni cosa nel mondo è a lui sottomessa per volontà di Dio,
ma poi all’improvviso questo non è più vero. Ecco il terrore. O meglio ecco
l’inferno.
La
terra appena raggiunta – ovviamente – non è poi nemmeno del tutto sprovvista di
esseri umani. I nativi non sono troppo gentili con gli intrusi (anche perché
non sono i primi che vedono) e in pratica ne fanno fuori un bel po’. Gli altri
li ammazza One Eye (anche perché, superstiziosi come sono, non cessano di
attribuire a lui o al ragazzo la ragione delle loro sventure) o si ammazzano da
soli. Fino al finale in cui la figura del guerriero assume un aspetto quasi
cristologico, sostanzialmente sacrificandosi, offrendo la sua vita affinché il
bambino viva. Ed in realtà è proprio One Eye l’autentica figura mistica di
tutto il contesto, l’uomo tornato dall’inferno che ha in fondo a se un barlume
di umanità, che non viene negato ma semmai mutato, reso autentico, dalla sua
terribile consapevolezza.
La
visione di “Valhalla Rising” è tanto provocatoria quanto appagante, i lunghi
silenzi, le percezioni e i flash forward splendidamente virati in rosso, le
esplosioni di violenza ma soprattutto il confronto dell’uomo col mistero, il
provare a dire quello che in effetti dire non si può. Un film magari non per
tutti o quantomeno non per chi ama il solido terreno delle certezze. Un film
spirituale senza essere religioso. Un film che condanna il cristianesimo pur
possedendo un’anima ed un pulsare definibili (lato sensu) cristiani. Un film agnostico (e io lo intendo come un
complimento).
il film
la fine
trailer
IL MAGNANI dice: 9