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martedì 30 luglio 2013

guilty pleasures/1

Hessa - il nazi porno a fumetti

Dopo il successo di Biancaneve disegnata dal grande Leone Frollo arrivano le versioni sexy anche delle altre fiabe. Una probabile ispirazione anche per "Fables" di Bill Willingham
Divertenti avventure fantasy-boccacesche per questo personaggio forse minore.

Sukia - la vampira degli anni'80 che - almeno in copertina assomigliava ad Ornella Muti
                                        Sukia - Gary super macho (major force west remix)
                                         band che si ispira nel nome e nelle atmosfere all'omonimo cult comic                                      ben  diffuso anche dalle parti di Tijuana
                                                     i Jacula band italiana horror - prog

Al confine incerto. L’apocalisse è quello che c’è già.


Ce lo dicono. Pensando di rassicurarci.
I Maya non c’hanno indovinato.
Cioè: dove sarebbe la buona notizia?
Mica prevedevano la fine pura e semplice per tutta l’umanità – tra pianto e stridor di denti - annegando assetati in un mare di merda e vomito. Lasciate stare adesso tutte le altre profezie di contorno, che non erano altro che un tentativo di dar forza a quella principale – che in verità – come vagonate di santoni new age si affannavano a spiegarci - non significava la “fine del mondo” quanto piuttosto la fine di un ciclo, di un’era o chiamatelo come volete, che tanto ci dovremmo essere capiti comunque.
Insomma la verità è che, nella profezia dei Maya, io, come molti altri suppongo, ci avevo onestamente sperato. Lungi dall’atterrirmi, ne ricavavo invece un benevolo refolo di speranza. Si perché c’è una bella differenza, se ne converrà, tra il dire “avevo ragione, siamo tutti nella merda (compreso me) grazie solamente ai nostri comportamenti, e oramai non ci rimane che affogare” e dire “abbiamo sbagliato tutto ma possiamo ricominciare: abbiamo un’altra possibilità”.
Per non chiudere completamente le porte in faccia alla speranza farei notare – quanto meno a me stesso – che le epoche storiche ben difficilmente si chiudono col botto – sono generalmente processi piuttosto lenti che – anche quando generati da uno o più eventi di grande portata (chessò: la scoperta dell’America; la seconda guerra mondiale…) hanno bisogno di tempi lunghi per rivelarsi in tutta la loro portata. Ciò per dire che nulla esclude che un’era si stia veramente chiudendo per lasciar spazio ad un’altra. E lo sviluppo della cosiddetta “crisi” potrebbe farsi rivelatore in tal senso – ma mettendo da parte le mie doti profetiche devo mestamente ammettere che – per dirla col poeta – “lo scopriremo solo vivendo”.
Eppure la voglia di apocalisse in giro c’è ed è tanta. Arrivo a pensare che non si tratti (non si tratti PIÙ) del solito bisogno di esorcizzare le paure tramite la rappresentazione figurativa (col cinema perlopiù – ma anche coi fumetti, videoclip, videogames ecc.) o l’evocazione narrativa o poetica: questo è andato bene in passato – ogni qual volta, ad esempio, ed è successo spesso, la “modernità” e il “progresso” mostravano il loro volto feroce e disumano. Le arti (in senso ampio – senza distinzioni tra “alto” e “basso”) sono state spesso quasi una sorta di “mea culpa” corale di una società intera: l’unico – o quasi – momento di raccoglimento possibile (seppur – talvolta – altamente spettacolare) in cui  celebrare le vittime dell’era dell’opulenza – il loro sacrificio (sottinteso “necessario” – almeno quasi sempre -  e qui andrebbero introdotte delle distinzioni) è a tutti gli effetti un sacrificio umano mentre la prosecuzione dello status quo è   il premio di questo doloroso tributo.
La fine del mondo (sempre sottinteso: il mondo così come lo conosciamo) appare sempre più come un qualcosa di sperato e desiderato – l’unico e solo modo di lasciarsi alle spalle i guasti della società globalizzata ed avere una possibilità – piccola o grande che sia – di ricominciare su basi nuove. Basi che – dati i momenti di inevitabile difficoltà pratica che ci troveremmo a vivere – esalterebbero al limite estremo le doti dell’essere umano, sia quelle negative che quelle positive. Col risultato di una società selvaggia in cui il “bene” avrebbe comunque una chance di prevalere: cosa che nel tempo attuale, in un contesto sociale esasperatamente “strutturato” e certamente più chiuso di come ama autorappresentarsi appare – con ogni probabilità – impossibile. 
"materiale umano" da World War Z


Ora: il fatto che io abbia tratto queste riflessioni da una serie di blockbusters dell’attuale stagione cinematografica può anche far dubitare della mia sanità mentale. Questi film hanno però vari aspetti in comune (oltre alla vicinanza delle date d’uscita) e – pur non volendo attribuire chissà quale valore alle coincidenze (che -  d’accordo – junghianamente non esistono – ma che volendo si spiegherebbero col mero calcolo commerciale legato per l'appunto al pulsante millenarismo scaturito in prossimità dello scadere della profezia Maya. Nient’altro che un argomento alla moda, dunque) mi pare necessaria una riflessione che vada oltre lo specifico filmico e punti – cazzeggiando un po’, va da sé – all’universo pulsionale che le pellicole in questione si incaricano – all’interno di classiche storie avventurose – di rappresentare.
Tra queste la più sorprendente è forse “World war Z”, tratto dal libro di Max Brooks ed adattato per lo schermo in modo da infilarci la figura – tradizionale e Hollywoodiana – dell’eroe positivo (interpretato qui da Brad Pitt). Il film di Marc Forster (non certo un autore in senso pieno, ma regista duttile e di buone capacità) ha il pregio di chiarirci - in maniera plastica e graficamente spettacolare – che una cosa è “la fine del mondo” altra è la “fine dell’umanità”. Tutto il pianeta è preda di una terribile epidemia “zombificante”, nessun è al sicuro, ogni sistema di difesa è debole e temporaneo, i nostri simili si trasformano velocemente in orribili creature pronte a divorarci e ad infettarci. La salvezza sta negli inganni che la natura stessa ama predisporre, cioè in definitiva in un vaccino, che – pur riuscendo a fermare il contagio – non ci esimerà dal combattere una guerra durissima contro masse immensi di nostri simili ormai irrimediabilmente mutati. Ma c’è comunque una speranza. È qualcosa. Speranza che – paradossalmente – ci viene da altre malattie – gravi, mortali anche, ma delle quali abbiamo scoperto la cura. La debolezza dell’oggi potrebbe diventare la forza del domani.
Superman




L’uomo d’acciaio” non è altro che l’ennesimo tentativo di adattare per il grande schermo le avventure di Superman. Si tratta questa volta di un reboot; dopo l’avvilente “Superman returns” di Bryan Singer di qualche anno fa classificabile come sequel rispetto alla precedente quadrilogia iniziata da Richard Donner sul finire degli anni ’70 (film piuttosto tediosi – seppur col tempo ammantati dall’aurea del cult). Zack Snyder - a mio modestissimo parere – firma qui il suo film più riuscito di sempre – non che ci volesse poi molto – riportandosi perlomeno ai dignitosi livelli dell’esordio col remake “running” degli zombies romeriani di “Dawn of the dead”. Qui il sentore escatologico arriva direttamente dal pianeta Krypton (luogo natale del nostro Kal-el, per i veri alieni che non lo sapessero) nella forma del generale Zod (ottima idea quella di non aver scelto il solito Lex Luthor come villain di turno) che ha la buona idea di “kryptonizzare” (come dire terraformare – però in senso inverso) il nostro malcapitato pianeta – avente  l’unico torto di aver ospitato – per quanto inconsapevolmente – l’unico altro superstite della defunta terra natia ad eccezione dello stesso  Zod e della sua crew. Tutto l’aspetto catastrofista, per quanto spettacolare – passa un tantino in secondo piano – rispetto alle caratterizzazioni dei personaggi: in particolare il ramingo e stranito Clark Kent funziona alla grande e riesce a generare un’immediata empatia, ma è tutto il film che – nella sua “colossale medietà” riesce simpatico ed onesto (l’opinione è strettamente personale – beninteso – stante anche la mole di recensioni negative accumulate), merito senza dubbio anche della collaborazione di Christopher Nolan e David S.Goyer in sede di soggetto, sceneggiatura e produzione. Tanto che verrebbe da azzardare un sì alla domanda posta nella precedente pellicola se il mondo avesse ancora bisogno di Superman. 

Uno dei Kaiju di Pacific Rim




Pacific rim” è, invece, la nuova ed attesa fatica di Guillermo Del Toro, regista che, alla pari di Peter Jackson e Quentin Tarantino (per non fare che due esempi) agisce da “collezionista”, ripercorrendo col suo cinema ossessioni ed emozioni che, in tutto evidenza, hanno funestato la sua infanzia e la sua adolescenza. Il discorso risulta chiaro specialmente a fronte di quest’ultimo cimento: né più né meno che un kaiju- eiga condito da roboanti effetti speciali e buon uso di CGI (peraltro in qualche modo enfatizzata dal modo “virtuale” in cui i piloti devono condurre i loro robottoni). Gli amanti degli anime coi robot giganti – a cui diedero corpo anni addietro vari autori giapponesi con l’immenso Go Nagai come capofila – possono qui realizzare un loro sogno proibito, rivivendo sul grande schermo una storia che si propone di essere al contempo omaggio e sintesi di quel tipo di animazione. Combattimenti spettacolari – dunque – tra mostri (chiamati kaiju, guarda caso) e robot giganti (kaiju- jaeger) insieme ad una forte enfasi sulle caratterizzazioni dei protagonisti e sulle loro dinamiche interpersonali. Il risultato è una strana e soddisfacente gioia per gli occhi ed il cuore. I mostri sono molto suggestivi col loro look dinosauresco – ben giustificato dal fatto che non sono alieni ma esseri provenienti da una dimensione parallela tramite un varco aperto nel fondo dell’oceano; la stessa dimensione dalla quale vengono perlappunto i primi abitanti della terra, desiderosi, evidentemente, di riconquistare quel mondo che avevano dovuto lasciare per le mutate condizioni climatiche.
Il pericolo dell’estinzione umana, dunque, arriva a volte dalla stessa natura, a volte da pianeti lontani, altre volte ancora da qualcosa di rimosso che – in un modo o nell’altro – è sempre stato vicino a noi.
Ma c’è sempre un lieto fine? Beh, fino a un certo punto. Ben due film affrontano – con esiti piuttosto diversi – una tematica assai ricorrente nella SF più classica. Quella di un futuro in cui – generalmente a seguito di un qualche tipo di guerra – la terra è ridotta ad un cumulo di macerie ed inquinamento e la razza umana è oramai emigrata per colonizzare altri pianeti. 
Tom Cruise guarda il panorama


Oblivion” di Joseph Kosinsky – vede Tom Cruise impegnato in un ruolo simile a quello del “Wall-e” nell’omonimo cartoon disneyano – ha infatti il compito di monitorare l’estrazione delle ultime risorse idriche della terra, destinate al sostentamento delle colonie. Lo scenario è quello post bellico, in cui i terrestri hanno sì vinto la guerra contro gli invasori alieni, ma al prezzo di una quasi totale devastazione del pianeta. Questo senza contare che gruppi di nemici ancora scorrazzano per le desolate lande mettendo a repentaglio l’attività di coloro che si occupano di prelevare le ultime risorse necessarie alla sopravvivenza nello spazio. Inutile sottolineare come le cose non sono quello che sembrano. Nonostante una trama piuttosto prevedibile (e chi ha visto “Moon” di Duncan Jones, proverà un preciso senso di deja vu) il film in questione si guarda piuttosto volentieri – a patto di essere appassionati al genere – e, in definitiva, l’unica cosa a dar veramente fastidio è solo il lieto fine, davvero troppo “lieto”.
Rimangono da spendere poche parole per “After Earth”, blockbuster (almeno nelle intenzioni) firmato da M. Night Shyamalan (le cui quotazioni sono decisamente in ribasso, soprattutto a causa del flop de “L’ultimo dominatore dell’aria”) ma di fatto opera di Will Smith, che approfitta della situazione per tentare – per l’ennesima volta – il lancio della carriera attoriale del figlio Jaden (dopo il mucciniano “La ricerca della felicità”, sempre in compagnia del padre e l’assolo del – ben presto dimenticato – remake di “Karate kid). Chiariamo subito che il pur volenteroso Smith junior trasuda una certa antipatia sin dalle prime immagini, tanto che viene il sospetto che il complesso di colpa/inferiorità nei confronti dell’ingombrante genitore vada anche al di là del film (cinema veritè o pubblica psicoterapia – chissà?). La razza umana si è definitivamente trasferita su altri pianeti, essendo la terra oramai drasticamente fottuta, il viaggio interplanetario è una realtà consolidata e le guerre aliene si sono concluse a nostro favore. Può capitare tuttavia che un viaggetto tra padre e figlio vada a naufragare su un pianeta decisamente poco raccomandabile. Indovinato quale? Il seguito poi si risolve in una serie di peripezie che il giovine Smith dovrà affrontare al posto del padre, immobilizzato e in pericolo di vita, per riuscire a chiamare i soccorsi. Alcune buone scene d’azione e qualche trovata bizzarra (ad esempio la protettiva aquila gigante, decisamente disneyana) non salvano il film dall’eccesso di retorica e da un buonismo “senza costrutto”, mentre la plausibilità latita assai. Ma quel che è peggio è che ci si domanda un po’ per tutto il film se sia più stronzo il padre o il figlio, arrivando alla fine senza essere riusciti a risolvere l’enigma.
Da un’angolatura trasversale appare chiara la dimensione strettamente “ludica” che in queste pellicole l’elemento apocalittico assume. In effetti la catastrofe globale non è mai – direttamente almeno – cagionata dall’uomo. Siamo dunque di fronte a un passo avanti nella rappresentazione escatologica umana – abbiamo cioè superato sia la fase classica del catastrofismo che – con una certa approssimazione certo – potremmo chiamare della “paura del progresso” sia quella gravitante intorno all’undici settembre del “monito autocritico”. E anche solo il fatto che la dimensione ludica della fine sia così ben presente nell’intrattenimento attuale rende lecito pensare che il messaggio inconscio che possiamo ricevere sia quello – semplicemente – di prepararci all’inevitabile. Tentando si sopravvivere – magari per avere una seconda possibilità. Cinema della resilienza – in effetti.   
Pensate quel che volete di Oblivion ma Ola Kurylenko è un gran pezzo di topa
     
                                                          Trailer di Pacific Rim
                                                    Bella scena di After Earth