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martedì 26 febbraio 2013

IL PLENILUNIO DELLE VERGINI – Paolo Solvay (Luigi Batzella) – 1973



Probabilmente non vale nemmeno la pena occuparsi di questo film, considerando che, per una ragione o per l’altra, ha assunto uno status di culto che forse va – obiettivamente – al di la dei suoi meriti.
Il rischio, a fronte di pellicole sì tanto mitizzate è, invariabilmente, quello della delusione nel trovarsi davanti “solo” un horror tardo gotico con ammiccamenti sexy e psichedelici, somministrati in modo non troppo difforme a quanto faceva la Hammer nei suoi ultimi anni. Bisogna dunque fare uno sforzo di oggettività e lasciarsi magari andare ad una visione da puri e semplici appassionati di un genere e di un periodo storico. Occorre fare lo sforzo (piccolo, ma forse immane per qualcuno) di accostarsi alla pellicola con occhi puri e ingenui, vogliosi di farsi affascinare , per l’ennesima volta, dal brivido vampiresco nelle sue tendenzialmente infinite declinazioni. Questo sforzo – credetemi – vale la pena di farlo. Voglio dire: saremmo capaci tutti di assumere le vesti dello spettatore smaliziato e demolire con le armi (facili) dell’ironia e della risatina, una sceneggiatura traballante e degli effetti speciali chiaramente “cheap”. Saremmo capaci tutti ma sarebbe un esercizio di nessuna soddisfazione [a meno che qualche procace matricola universitaria non si dichiari irrimediabilmente attratta dalla vostra spocchia al punto di concedersi a voi, in quel caso avete tutta la mia approvazione]. In altre parole la squalificante ed abusata categoria del “trash” ha fatto il suo tempo – probabilmente ha avuto il suo ruolo nello scoperchiare un vaso di Pandora di pellicole che rischiavano il dimenticatoio – ma ,come dire, mòbbasta. 



Un aspetto che conferisce fascino al film è il fatto che appare quasi come un fedele adattamento per il grande schermo dei fumetti erotici targati Edifumetto o Ediperiodici che all’epoca andavano per la maggiore, in particolare, va da sé, di quelli con vampire protagoniste (mi riferisco a “Jacula” o a “Zora la vampira”, quest’ultima nata proprio l’anno precedente, nel 1972 – “Sukia” e “Yra” erano ancora di là da venire), prima che gli anni ’80 facessero prendere alle pubblicazioni in questione una china sempre più zozza, nel vano tentativo di competere col porno vero e proprio. La sceneggiatura, in effetti, potrebbe benissimo funzionare per un fumetto del genere, ricca com’è di fascinazione per gli elementi macabri e sensuali al contempo – non troppo approfonditi ma quasi solo suggeriti tramite il richiamo ad elementi archetipici che – perlomeno all’epoca – facevano scattare determinate molle. Si potrebbe anche riassumere la trama con una serie di associazioni d’idee: archeologo/anello magico /Transilvania /castello/paura popolare/figure misteriose/donna bellissima/vampiro/sesso/sacrificio umano/lieto fine/vero finale. Eppure è fin troppo chiaro che – qui come altrove – sono le sfumature a fare le differenze, altrimenti, com’è ovvio, una volta visto un Dracula, la pratica Vampiri potrebbe dirsi archiviata e tanti saluti a tutti gli altri denti appuntiti (compresi Edward e Bella, ma in questo caso non ci saremmo persi un gran che).



La trama in sintesi. L’archeologo Franz Schiller (nome che forse richiama, per assonanza Schliemann) scopre che il famoso anello dei nibelunghi si troverebbe in Transilvania; informa del fatto il fratello Karl e – dopo aver ricevuto da questi un amuleto che tiene lontane le forze del male, parte in direzione del luogo che ospita il castello in cui è custodito l’ambito reperto. Una volta in loco, Franz si scontra con la superstizione e la scoperta ostilità della popolazione e delle autorità del luogo, ben consapevoli ovviamente della natura demoniaca di coloro che nella magione dimorano. Nell’unica notte che il malcapitato (interpretato da Mark Damon) trascorre nella locanda del paese c’è però il tempo di invaghirsi (ricambiato) per la bella figlia dell’oste (Francesca Romana Davila) la quale – forse – spera di essere deflorata in tempi brevi – vista la brutta consuetudine per cui le vergini tendono a scomparire in una determinata notte di luna piena dell’anno (ma questa speranza è solo una mia supposizione e non è esplicitata).
Rosalba Neri - anche più sotto


Una volta al castello, Franz (che si è dimenticato l’amuleto alla locanda, scettico com’è) viene accolto dalla spettrale domestica (Esmeralda Barros) e – in seguito – dalla fascinosa contessa De Vries (Rosalba Neri) che non ci metterà poi tanto ad affascinare lo studioso e a vampirizzarlo. Peraltro dichiarandosi anche vedova del conte Dracula. Nel frattempo si avvicina la notte di plenilunio in cui è fissato il sacrificio rituale delle vergini e tutto andrebbe per il meglio se non fosse per l’intervento di Karl, preoccupato per il fratello e tempestivamente recatosi nei Carpazi. Per farla breve: il nuovo arrivato recupera l’amuleto e riesce a sventare i diabolici piani della contessa. Salvo compiere una fatale ingenuità nel finale e scoprire che l’apparente mentecatto che si fa vedere ogni tanto nella nebbia, in prossimità del castello è un soggetto ben più significativo di quel che poteva sembrare.



Come detto non è tanto la trama a dare fascino al film ma tutto il contorno. In primis Rosalba Neri nel ruolo della vampira (ispirata chiaramente alla contessa Bathory) è splendida e statuaria. La promiscuità sessuale del personaggio (si intrattiene anche con la governante, infatti) la guida nell’azzeccatissima commistione di sesso e psichedelia che condurrà alla vampirizzazione del povero Franz, in quella che è indubbiamente la scena più memorabile della pellicola e che dimostra – se qualcuno ne sentisse il bisogno – come le pellicole italiane dell’epoca sapessero supplire a limiti di budget e a sceneggiature un tantino improvvisate a colpi di inventiva e con trovate che il tempo non ha affatto privato del loro fascino o della loro capacità di stupire. 




Ottima è poi anche la scena del sacrificio delle vergini – anche se qui la povertà di mezzi si vede, riesce comunque a funzionare, specie per la bizzarria di uno dei vampiri  - veramente inquietante e che rimane parecchio impresso (interpretato – forse – da Ciro Papa – ma onestamente non saprei).
Apprezzabile anche il finale, adeguatamente spiazzante e ben gestito – anche se poi a ben vedere, a livello di sceneggiatura, lo sbaglio compiuto dal protagonista (cioè: affidare l’amuleto al fratello morto, ritenendosi, evidentemente, ormai fuori pericolo) appare un’ingenuità giustificabile solo con parecchia benevolenza.
Da segnalare che il film è in larga parte girato presso il castello di Balsorano, in Abruzzo. Direttore della fotografia era Aristide Massaccesi. Il regista Batzella usò vari pseudonimi nella sua carriera – i suoi film più noti probabilmente sono “Nude per satana” (sempre a nome Paolo Solvay) e i nazi erotici “Kaput Lager – gli ultimi giorni delle SS” e – in particolare – “La bestia in calore” [diretti entrambi come Ivan Kathansky)[1]





IL MAGNANI dice: 6/7


[1] Secondo Rosalba Neri parlando di Solvay/Batzella : “Sembrava che fossero due insieme, uno che andava da una parte e uno dall’altra…e raramente si incontravano  ”. Da “99 Donne” ,pag.171. edizioni media word, a cura di Davide Pulici e Manlio Gomarasca, 1999.
Libro molto raccomandato a tutti gli  interessati alle attrici del cinema italiano degli anni che furono.