Nell’ambito
delle perversioni e/o parafilie che dir si voglia la pratica del tatuaggio
raramente viene acclusa.
Ma
,come pare ovvio, qualsiasi attività può assumere caratteri che la pongano al
bivio tra arte e “devianza” di natura sessuale. Basti pensare al bondage,
ovvero l’arte del legare le persone, pratica che in Giappone (ma non solo, come
risulta da alcuni casi di cronaca in cui, anche in Italia, il gioco si è spinto
troppo avanti) ha numerosi estimatori (tra i quali citiamo almeno Masami Akita,
meglio noto per la sua produzione musicale nell’ambito del noise più estremo
col nome di Merzbow), e per la quale il confine tra sesso, ritualità e body art
può definirsi alquanto sfumato se non proprio inesistente (ma certamente, se vi
capitasse di visionare qualche video sull’argomento, è l’aspetto rituale, quasi
“tecnicistico”, a prevalere – siamo ben lontani dallo spirito ludico che
animava le illustrazioni di Eric Stanton o la serie a fumetti “La Bionda” di Franco Saudelli).
Sempre
al confine tra misticismo e body art si può situare l’arte del tatuaggio
(Irezumi - 刺青 –in giapponese, da cui il titolo
del film).
Con in più una componente sessuale da sempre implicita
- ma che il regista Takabayashi riesce
ad esprimere in modo originale ed elegantissimo. È appena il caso di notare che
i tatuaggi di cui si parla hanno le proprie radici in un’arte antica e che poco
o nulla hanno ha che vedere con la totale mercificazione di cui – nell’epoca
attuale – sono fatti oggetto. Però – dopotutto – qualcosa di quel misterioso
connubio di dolore e piacere, un residuo del sacrificio di sé allo scopo di
farsi “arte vivente” rimane ancor ‘oggi. Questo per quanto i risultati – all’atto
pratico – siano spesso insignificanti.
La pellicola di cui si tratta racconta di Akane (Masayo Utsunomiya),
giovane e bella amante (nonché segretaria) di un uomo d’affari – Fuijeda – del
quale è perdutamente innamorata. Ci sono dei problemi però: intanto lui ha
anche un’altra donna – più anziana – e soprattutto è in fissa coi tatuaggi. Per
lasciare l’altra e stare definitivamente con Akane questa dovrà accettare di
farsi tatuare - e non da uno qualunque,
bensì dal maestro Kiogoro (Taiji Toniyama)che vive a Kyoto e ha accettato di
tatuarla benchè ormai da anni non pratichi più la sua arte.
Il maestro vive con la figlia(in realtà adottiva) e un giovane
assistente e, nell’accetare di tatuare Akane , l’avverte comunque che il
procedimento sarà doloroso e l’impegnerà per diversi mesi. Già dalla prima
seduta apprendiamo una peculiarità del metodo di questo tatuatore:
l’assistente, infatti, non ha solo la funzione tautologica di assistere ma ha un ruolo attivo, che –
volendo – potremmo definire “antidolorifico”. Il ragazzo – di nome Harutsune –
ha infatti il compito – una volta denudato il suo corpo interamente tatuato –
di penetrare (e non con un ago, sia chiaro) la giovane Akane, con molta
tranquillità e senza partecipazione , in modo da distrarla dal dolore – o
meglio: in modo da consentirle di sublimare il dolore in desiderio e quindi in
piacere sessuale. La sofferenza in realtà – ed i partecipanti a questa
cerimonia ne sono certo consapevoli – non viene mai veramente meno – solo
appare mutare la sua forma – ed ogni sua parvenza distruttiva si converte in
forza creat(iva)rice. Trovare un parallelo col parto non sarebbe poi azzardato.
Ed in effetti – nella filosofia del tatuatore Kiogoro – l’irezumi è quasi una
nuova forma di vita, o forse meglio sarebbe dire un simbionte: un atto
artistico vivente che ha necessità assoluta di un corpo ospite e che vivrà
fintanto che avrà vita il suo portatore. Il tatuaggio, più che raccontare chi
lo porta , lo ridefinisce :diviene una sorta di organo aggiuntivo (esterno,
ovviamente) – un organo scelto ma che forse – in un certo senso – ci sceglie.
Col tempo però Akane inizia a provare un piacere sempre più
intenso: un piacere che, implicitamente, ricollega al dolore del tatuarsi –
dolore non più temuto ma anzi cercato come dimostra la scena del piccolo
tatuaggio sotto l’ascella, dipinto (o scolpito – forse sarebbe meglio dire) a
mo’ di saluto finale. Col procedere delle operazioni anche il rapporto con
Harutsune si fa più profondo – lasciando l’attempato amante Fuijeda sullo
sfondo come una figura inevitabilmente destinata a sfocare, come qualcuno che
non può veramente capire la profondità dell’esperienza che altre persone hanno
vissuto.
Nel procedere della narrazione veniamo a scoprire qual è
l’effettivo legame tra Kiogoro e il suo assistente. Un tragico vincolo – ignoto
agli stessi protagonisti – che, una volta venuto alla luce, condurrà Harutsune
al suicidio (e nel dirlo non rivelo nulla del finale: il film si apre proprio
con un flash forward che rivela la morte del giovane – con tanto di sangue a
bagnare la neve – ennesimo ed estremante effimero atto artistico/ segno sulla
pelle - terra).
L’opera di Takabayashi procede spesso per balzi temporali;
tuttavia lo fa in modo sempre elegante e nel contesto – dovuto tanto al
montaggio quanto ad una splendida ed algida fotografia – di un complessivo “raggelamento”
delle emozioni. Un film che fa del distacco e della freddezza un suo preciso
modus narrativo e che ,proprio in virtù di ciò , rende la passione
rappresentata tanto più bruciante e dolorosa. Come se si sentisse sulla pelle.
Nelle foto immagini dal film e poster sia dall'edizione giapponese |
sia da quelle francese ed olandese
IL MAGNANI dice: 9